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Quelli delle uscite soft

di - 16/02/2017

Da  questo numero di 4granfondo, quello di Gennaio-Febbraio è stata inserita una nuova rubrica curata dal nostro Stefano Conca, una new entry nello staff dei collaboratori. “Quelli delle uscite soft” è uno spazio attuale, che in un certo senso, cambia il modo di fare la pubblicazione delle rubriche di questo stampo, per troppo tempo esageratamente compite, troppo astratte e lontane da quelli che sono i veri interpreti amatoriali della bicicletta, di tutte le categorie e andature. Grazie a Stefano Conca.

 

“Ero cresciuto tra pignoni di tutte le misure, cerchi in acciaio e in lega leggera, raggi, catene, pattini dei freni e camere d’aria piene di pezze, ma non me ne ero mai lontanamente interessato; per me quello era solo il noiosissimo hobby di mio padre, che invece si ostinava a chiamare “passione”. Passava intere nottate in cantina con l’ossessione

di riportare alla luce antichi cimeli a pedali. Se non erano almeno vecchi come lui, non cominciava nemmeno ad allentane una vite. Prediligeva le bici da città, con i freni a bacchetta magari interni e possibilmente dei primi del ’900. Ganna, Bianchi, Legnano, Umberto Dei, Taurus, e molte altre ancora. I sui clienti erano soprattutto collezionisti, che gli commissionavano 10-15 restauri l’anno. Il

suo laboratorio era sempre preso d’assalto da amici e conoscenti o semplici curiosi. Purtroppo di tanto in tanto doveva anche dare retta a vicini di casa o amici di amici che per un pacchetto di sigarette si facevano risistemare la bici, cosa che lo irritava moltissimo, e a cui non riusciva a sottrarsi. Il tempo passava e io, sempre disinteressato alle due ruote di qualsiasi genere, avevo cominciato ad accusare problemi alle ginocchia per via della troppa corsa. Mi sottoposi a tutta la normale trafi la di controlli e accertamenti medici, dalla risonanza magnetica alla visita dell’ortopedico, ma il problema era piuttosto chiaro ed evidente: menischi lesionati, versamenti e calcifi cazione dei tendini rotuleo femorali. Correre mi piaceva, soprattutto da solo. Avevo cominciato intorno ai 25 anni e non avevo mai più smesso, anche se la regolarità non era certamente una delle mie prerogative principali. Ma, seppure con qualche piccola pausa, il running non era mai mancato nella mia vita. Uscivo a tutte le ore: la mattina presto d’estate, il tardo pomeriggio d’inverno. Amavo correre lungo i corsi d’acqua del mio paese. Correvo e pensavo a qualsiasi cosa, e le idee erano stanche, e dovevo faticare molto per afferrarne una e tenerla per più di 10 secondi, perché l’acido lattico, che lentamente riempiva le gambe come fossero delle taniche di latta, risaliva lungo la schiena e si riversava dritto nella testa annegandone i pensieri, anche i più semplici. L’unico che non affogava mai, e che anzi trovava in quella specie di vasca mentale l’ambiente ideale per sopravvivere, era l’ansia. Così, quando cercavo di allungare un po’ e alzare il ritmo dell’allenamento, il fiato che già cominciava ad accelerare si faceva sempre più corto, fi no a diventare un fi lo e costringermi a mollare. Ma queste sensazioni di soffocamento non mi impedirono mai di tornare a correre il giorno dopo. Quello che mi fermò definitivamente fu il dolore alle ginocchia. Una sera d’autunno del 2014, per una serie di coincidenze, riuscii a organizzare un’uscita con il mio migliore amico d’infanzia: Claudio.

Non ricordo come avvenne di preciso, ma successe che magicamente ci ritrovammo dopo molti, moltissimi anni l’uno dinnanzi all’altro con un mondo di cose da raccontarci e un’invitante pizza fumante da consumare. Si parlò di tutto, ridemmo tutta la sera ricordando i vecchi tempi, le cazzate più eclatanti, le gesta eroiche, e infine lo sport. Lui era un ciclista incallito, ma di quelli così convinti che ti fanno paura. Era così estasiato da quel mondo che alla mia domanda: “Ma che cosa ci trovi di così divertente nel vestirti da Mazinga Zeta e pedalare per centinaia di chilometri su una bici così scomoda come quella da corsa in tutte le condizioni atmosferiche?”, lui riusciva a malapena a emettere una specie di suono, combinando l’espressione di un beato a quella di un martire. Io non capivo, e più cercavo spiegazioni e più mi sentivo allontanato da quell’universo parallelo di persone strane, avvolte nella lycra e votate al sacrificio estremo.

Quando ormai anche il fuoco del forno per la pizza consumò l’ultima brace rimasta, e le sedie del locale, tranne le nostre, furono tutte capovolte sui tavoli, capimmo che “forse” era ora di andare. Ci lasciammo troppo velocemente, e io, anche se non lo diedi a vedere, ci rimasi molto male. Claudio non era più quello di una volta, qualcosa in lui stava cambiando, e quella luce unica e speciale dentro gli occhi profondi e vitali si era spenta. Tornai verso casa nella mia macchina calda con un piccolo dolore adagiato sul sedile del passeggero, qualcosa che non riuscivo a far scendere, a decifrare, ma che somigliava tanto a una specie di gelosia per non essere parte di quel mondo in cui il mio amico del cuore viveva e si realizzava senza di me. Quest’esclusione mi pesava, e con il passare dei giorni divenne grande come un macigno. Improvvisamente mi sentivo tradito, abbandonato, lasciato fuori! Questo sentimento crebbe, e crebbe ancora fi no a divenire così ingombrante da spingermi ad accarezzare una tra le più bizzarre idee che avessi mai potuto concepire, e fare una scelta che avrebbe cambiato la mia vita profondamente, e che mai avrei lontanamente immaginato.”