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Quelli delle uscite soft, episodio 2

di - 09/03/2017

Questa rubrica è uno spazio che trovate, completo, sul magazine carteceo e versione digitale n°3 di Marzo.

Ecco un breve riassunto:

 

L’ABBIGLIAMENTO DEL CICLISTA E L’ESORDIO IN MTB

Era la seconda settimana di Novembre, il cielo era sporco, quasi fangoso e le chiome dei pioppi, ancora troppo folte per il periodo, ondeggiavano appena. L’aria era fredda ma non gelida, e la condensa come una finissima pioggia leggera pizzicava le guance, l’unica parte del corpo rimasta scoperta.

 

La vestizione:

Quella mattina mi ero alzato che era ancora buio e avevo fatto una colazione leggera. Seguivo le indicazioni del mio migliore amico in modo scrupoloso e dettagliato, come quando si studiano le istruzioni per montare una cassettiera dell’Ikea. Per prima cosa i calzini, che non sono né corti né lunghi, ma per il ciclismo; hanno un’altezza che non metteresti mai con nient’altro. Quando correvo, indossavo modelli tecnici rinforzati sui talloni e sulla punta, che però dovevano sporgere dalla scarpetta per un centimetro al massimo. Questo dava al polpaccio una linea molto più slanciata, sia d’estate con i pantaloncini corti che d’inverno con quelli a 3/4. I calzini da ciclista erano invece a mezza altezza e la tendenza sembrava quella di allungarli ancora un po’. In ogni caso, questi andavano messi per primi poiché la calzamaglia sulle caviglie era così stretta che doverla risvoltare successivamente per infilarceli sarebbe risultato un’impresa complessa, oltre che dannosa per le preziose cuciture del costosissimo capo d’abbigliamento. Poi era la volta del pantalone, che andava indossato senza mutande. L’idea di andarsene in giro senza la biancheria intima, ma soprattutto la consapevolezza che anche tutti gli altri seduti su un sellino non l’avessero, mi metteva un po’ a disagio. All’improvviso era come guardare il mondo con gli occhiali a raggi X di un super eroe della Marvel sebbene, diversamente da quanto mi ero immaginato, “tutto” rimaneva al proprio posto.  Poi era la volta della fascia cardio, quella striscia di stoffa elasticizzata che va agganciata tramite apposite clip su un lato, facendola passare dietro la schiena in modo che rimanga ben aderente al torace all’altezza del cuore e appena sotto lo sterno. A quel punto si poteva indossare una termica, ne misi una in microfibra che possedevo già e che usavo quando andavo a sciare. Era quindi la volta della maglia da ciclismo invernale o, vista la stagione, semi-invernale. Questo era un componente fondamentale perché, a differenza delle parti meno evidenti, era invece l’emblema del ciclista per fattura, forma e accessori. In più, se facevi parte di un team, ti identificava attraverso scritte, sponsor e personalizzazioni varie. Nel mio caso si trattava di un capo anonimo ma di un brand di tutto rispetto, pagato un occhio della testa. Il mio mentore aveva insistito molto su questo indumento, che poi si chiamava “giubbotto” di mezza stagione. In realtà era un maglia a maniche lunghe abbastanza pesante, super aderente come tutto il resto dell’abbigliamento, con una zip sulla parte anteriore e le classiche tre tasche sul posteriore dove i ciclisti riescono, non si sa come, a farci stare viveri per una settimana intera nella forma di barrette e gel di varia natura, magliette di ricambio, antipioggia, chiavi di casa, telefono e, i più evoluti, anche una micro pompa per gonfiare le gomme in caso di necessità. E pensare che per un solo fine settimana con la famiglia non bastano 4 valigie piene di cose inutili!

Gli accessori indispensabili:

Prima di uscire di casa, avevo indossato uno scaldacollo, anch’esso in lycra rivestito internamente di morbido pile, e il casco da ciclista che sembra fatto di polistirolo, il cui prezzo è inversamente proporzionale al peso. Poi c’erano le scarpe, o i cosiddetti scarpini da ciclismo. Claudio non aveva voluto sentire ragioni, e dovevano essere di buona qualità, ma soprattutto con le tacchette per l’aggancio ai pedali della bici. Questo è uno degli ostacoli psicologici più duri da superare per un neofita: la sensazione di essere attaccati al mezzo con i piedi bloccati, e con il terrore di non riuscire a staccarsi in tempo prima di una sosta, era davvero dura da metabolizzare. Noi gente di pianura nasciamo sulla bicicletta, fa parte della nostra natura, abbiamo imparato da piccolissimi. Alcuni di noi ci andavano già con le rotelle ancor prima di riuscire a camminare… ma sempre per spostarsi o per giocare, e mai per allenarsi il simbolo della libertà assoluta di movimento. Eravamo giocolieri e sfidavamo la forza di gravità in qualsiasi modo. Nel mio DNA c’era scritto “piedi liberi”, ma il regolamento del mio tutore era rigidissimo, così anch’io, come centinaia di migliaia di “colleghi” percorrevo gli ultimi metri prima di afferrare la maniglia della porta di casa con le “clacchette” ai piedi e il suono da ballerino di tip tap.

L’oggetto del desiderio:

Claudio aveva sempre e solo parlato di mtb, o forse io avevo sempre e solo capito così. Mi consigliò sulla misura, che doveva essere rigorosamente una 29”. L’ultima bici di quel genere che avessi posseduto, praticamente imposta da mio padre, risaliva al 1993, aveva il telaio in acciaio, un cambio di primissima qualità, ruote in lega leggera da 26” e manubrio in alluminio. Il peso complessivo doveva essere vicino ai 14 kg. Quella che comprai su suggerimento di Claude (come lo chiamavo io) aveva tutta la struttura monoscocca in carbonio e pesava meno di 10 kg. Meravigliosi ammortizzatori anteriori, più consoni a una moto, e freni a disco idraulici. La prima notte la tenni in casa appoggiata al porta abiti, era nero opaco, e osservandola da alcune angolazioni si intravvedevano le maglie del carbonio che hanno una lavorazione simile a quella della “gorgiera” di un cavaliere medievale. Era così bella da perderci la testa, come una meravigliosa presenza femminile era lì, delicatamente appoggiata alla parete del mio soggiorno. Non diceva nulla ma mi stava aspettando, di tanto in tanto sorrideva e mi strizzava l’occhio. C’è qualcosa di ancestrale in una bici che nessun altro oggetto possiede. Avevo già 45 anni, una moglie, due figli, e solo allora stavo cominciando a percepire qualcosa di magico che mi chiamava da decenni, ma che io avevo fino a quell’istante ignorato.

 

L’amico ritrovato:

Seguivo Claudio come un cagnolino segue il suo padrone. Continuava a dirmi di “stare a ruota” perché avrei faticato di meno. Anche questa era una cosa che non mi riuscivo a spiegare, ma decisi di non fare troppe domande ed eseguire i comandi. Ogni sabato mattina, di buon’ora, ci mettevamo in sella e pedalavamo per 40-50 km, ma sempre su strada. A seconda del tipo di percorso e di traffico, talvolta procedevamo in fila indiana, talvolta affiancati. Parlavamo molto, e anche se avevo il fiatone e le gambe doloranti, mi sentivo bene, e tra novembre e i primi di dicembre recuperammo i 15 anni in cui non ci eravamo più frequentati. Sulla sella era diverso, e chilometro dopo chilometro, anche se nascosta dagli occhiali e dal passamontagna, rividi quella calda luce nei suoi occhi, che non si era mai veramente spenta, ma solo trasformata.

foto di Jered Gruber e Sara Carena