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Vittime da corsa? Facciamo chiarezza…

di - 31/03/2016

Fabio Cappello, 29 anni, un giovane come tanti, le migliaia al via della Stramilano. Una mezza che non porterà a termine, e come lui Sara Bucciolini, appena 20 anni, stroncata da un malore alla Ferrara Marathon, e prima di loro un caso alla RomaOstia e un altro alla Brescia Art Marathon, per fortuna questo in maniera meno tragica. La corsa è sotto accusa, come sempre accade quando si parla di morti in gara. Fino a qualche anno fa gli organizzatori erano messi alla berlina, ma da allora molto è stato fatto e investito sulla sicurezza, l’assistenza sanitaria è molto veloce pur in condizioni oggettivamente difficili con ambulanze pronte con il defibrillatore, ma in alcuni casi non c’è davvero nulla da fare. Il problema è a monte: lo sfortunato ragazzo scomparso alla Stramilano aveva una patologia cardiaca congenita che i necessari controlli medici per avere il tesserino agonistico non avevano messo in luce.

Tant’è, ma a molti soloni poco importa, quel che conta è affermare che la corsa fa male, che lo sport fa male… Peccato che tanta acredine non sia riservata ad altri aspetti della nostra società, dove il numero degli obesi soprattutto nell’età infantile e adolescenziale è in preoccupante aumento, dove stili di vita troppo sedentari stanno influendo negativamente sul nostro stato di salute (anche in questo caso soprattutto nelle fasce giovanili, troppo intente a vivere nella realtà virtuale di pc, smartphone, videogiochi ecc.piuttosto che a fare sport all’aria aperta e a socializzare veramente), dove il traffico e le industrie infettano quotidianamente la nostra aria. No, la colpevole è la corsa.

Noi non ci stiamo, ma per controbattere bisogna fare chiarezza e lo facciamo attraverso questo esaustivo articolo di Antonio Russo de Il Giornale che affronta il tema dall’unico punto di vista legittimo, quello medico (G.G.).

Si può morire per una corsa? “Certo, si può ma la probabilità è molto bassa – spiega il professor Giuseppe De Angelis, primario di cardiologia dell’ospedale di Rho – Ovvio che quando succede a persone giovani che stanno facendo sport fa più scalpore. Però si tratta di eccezioni, il fenomeno  basso anche se non è zero e comunque i casi di morte improvvisa in genere nascondono sempre patologie cardiache che in condizioni normali sono silenti”.

Ogni anno nel nostro Paese la morte improvvisa colpisce 60mila persone e l’80% dei casi è dovuto a cause vascolari, il resto ad aneurisma cerebrale o dell’aorta. “I dati riguardano la popolazione generale – spiega il professor De Angelis – molto spesso persone ipertese o con patologie legate al diabete. Nella popolazione giovane invece la morte improvvisa è legata a patologie aritmiche o patologie muscolari cardiache che non si manifestano in condizioni di normalità e potrebbero anche non manifestarsi mai. C’è però una scintilla che può innescarle come una forte condizione di stress oppure lo sforzo di una attività sportiva agonistica”.

Difficile coglierne i segnali, Difficile perché durante una gara o una prestazione fisica intensa un atleta allenato è generalmente abituato a convivere con fatica e dolori quindi spesso tende a sottovalutare i segnali o addirittura a non coglierli. I dati di uno studio pubblicato nel 2006 dalla società italiana di cardiologia dello sport evidenzia come le fasce più a rischio siano quelle tra 40 e 50 anni e tra i 50 e i 60 e il maggior numero di decessi si verificano nel calcio seguito dal ciclismo e dal podismo, Ma evidenzia soprattutto come la morte improvvisa durante l’attività sportiva sia un evento davvero raro che coinvolge tra 0,5 e i 3 decessi ogni 100mila atleti. Però l’effetto sociale e mediatico è devastante, tanto da far sembrare che abbia un’incidenza maggiore rispetto alla popolazione generale. Conta l’aspetto emotivo perché spesso a morire sono volti noti. Da Renato Curi, mediano del Perugia, al cestista Luciano Vendemini morti in campo nel 1977, da Vigor Bovolenta che si accasciò sul campo di pallavolo al mediano del Livorno Nestore Morosini che sempre in quell’anno perse la vita in una partita contro il Pescara. “E i professionisti in genere sono più allenati e controllati – spiega il professor De Angelis – Per chi invece fa sport amatorialmente il problema è relativamente diverso. Chi fa attività agonistica deve sottoporsi oggi a una visita sportiva generale che dopo un’anamnesi su eventuali patologie familiari prevede un esame delle urine, un esame spirometrico e un esame cardiologico basale a cui segue un esame cardiologico sotto sforzo. Ovviamente la capacità predittiva di questo test è bassa e permette di evidenziare patologie latenti nel 60% dei casi. Solo nel caso si evidenzi una patologia si procede a un esame di secondo livello come possono essere un’ecografia cardiaca o una scintigrafia. E solo se c’è un altissimo sospetto di patologia cardiaca evidenziata dagli esami precedenti e da una familiarità con casi di morte improvvisa si può pensare a una coronarografia che è un esame invasivo e quindi raramente viene proposto a una persona sana”.

Gambe

Quindi buona regola, nonostante non metta al riparo completo da ogni rischio, resta quella di fare almeno ogni anno la visita cardiologica prima di avvicinarsi alla pratica sportiva. Che comunque porta benefici perché su questo pare non esserci dubbi. “Studi confermano che l’attività sportiva blanda per chi si avvicina da uno stato di sedentarietà riduce la mortalità del 50% e aumenta di 15 anni l’aspettativa di vita – spiega il primario di cardiologia di Rho – Il vantaggio si vede meno quando l’attività sportiva diventa intensa e importante, un impegno quotidiano intenso che poi porta a mezze maratone, a maratone, al triathlon. In questo caso è obbligatorio il buonsenso perché l’attività estenuante può diventare pericolosa e quindi provocare un deterioramento muscolare e coronarico. Quindi va assolutamente rispettato un giorno di riposo ogni settimana che serve a rigenerare il miocardio che è un muscolo e non va affaticato quotidianamente. Bisogna con il riposo dare la possibilità all’organismo di scaricare le tossine. Lo sport comunque è fondamentale ed è giusto farlo. Però ascoltando sempre i segnali che arrivano dal proprio corpo, rispettando la stanchezza e non avere la presunzione a sessant’anni di fare cose e seguire prestazioni da trentenni”.

Antonio Ruzzo – Il Giornale