Mettendo il naso fuori dal traforo del Monte Bianco, e scendendo i tornanti che portano a Chamonix,
l’alpinismo si sente nell’aria ben prima di arrivare in paese. La concentrazione è sempre più alta, fino a
culminare nel corso centrale, quello pieno di negozi e bar in cui puoi trovare gli stessi atleti che affollano le
pagine delle riviste. Dalla finestra del mio albergo si vedono le guglie di granito che vanno su dritte contro il
cielo, e non vedo l’ora di essere lì vicino.
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Chamonix è casa per Millet, brand di abbigliamento e attrezzatura di alpinismo che ci ha invitato qui per
condividere la propria visione della montagna e le novità di quest’anno. Le Alpi stanno cambiando: la
fusione del ghiaccio è più rapida che in altre parti del mondo, il permafrost si scioglie e i crolli che ne
conseguono stanno modificando il volto della montagna. Deve dunque cambiare anche il nostro modo di
fare alpinismo.
“Oggi siamo impegnati nella sfida di adattarci costantemente ad un ambiente in rapida evoluzione, con
l’obiettivo della neutralità della nostra impronta carbonica. Di conseguenza anche la pratica cambia, si
evolve. Avvicinamento a basse emissioni di anidride carbonica a piedi, in sci-alpinismo, in parapendio o in
bicicletta per accedere ai piedi delle vie; ascensioni più rapide, fast & light, discese lungo pendii sempre più
ripidi” afferma Romain Millet, Direttore Generale e pronipote del fondatore del marchio. Il brand intende
impegnarsi nel prossimo futuro attraverso cinque pilastri: utilizzare risorse rinnovabili, produrre beni
durevoli, prendersi cura di tutti gli step della catena di produzione, mettere l’essere umano al centro delle
attività, avere un impatto positivo sulla comunità.
Tocchiamo con mano questi cambiamenti sul ghiacciaio della Vallèe Blanche, quando il glaciologo Ludovic
Ravanel riporta dati ed episodi che fanno capire la gravità del fenomeno. “La neve che cade ci mette circa
15 anni a diventare vero e proprio ghiaccio. Ma se durante l’estate si perde più massa di quella che si forma
durante l’inverno, il processo si blocca. Lo scioglimento del ghiaccio anche ad alte quote ha come
conseguenza lo sgretolamento di tutte le masse rocciose che erano tenute insieme dal permafrost; basti
pensare al crollo del pilastro Bonatti, sul Petit Dru…” Quella frana da qui si vede: è un’immensa superficie di
colore diverso rispetto al resto della guglia. È strano guardare a queste montagne come a degli oggetti che
mutano, variano il loro aspetto in tempi così brevi: siamo abituati a pensare che ‘tanto la via rimane lì’ e
invece forse non è più così.
Per me è la prima volta da queste parti: sarà la quota, ma appena metto piede sul ghiacciaio rimango a
bocca aperta, e la sensazione non mi lascerà fino a sera. L’unica cosa che riesco a pensare è che è il luogo
più bello che abbia mai visto, poi mi ricordo che ultimamente l’ho pensato spesso. Nel frattempo qualcuno
mi indica i nomi delle cime circostanti: Grandes Jorasses, Grand Capucin, Aiguille d’Argentiére, Drus…
Saliamo in cordata verso il rifugio des Cosmiques, che se ne sta appollaiato su un costone roccioso a 3613
metri di quota. “Quando mi trovavo qui per alcuni studi relativi alla mia tesi, a un certo punto ho sentito un
fortissimo boato: sotto il rifugio si era staccata una gigantesca frana che ha rischiato di portarselo giù. La
notizia (relativamente) buona è che solo le rocce più superficiali sono cementate dal ghiaccio: una volta che
queste saranno tutte collassate, tra dieci o vent’anni, le montagne saranno soggette a crolli in misura molto
minore” continua Ravanel.
“Oggi siamo impegnati nella sfida di adattarci costantemente ad un ambiente in rapida evoluzione, con l’obiettivo della neutralità della nostra impronta carbonica. Di conseguenza anche la pratica cambia, si evolve. Avvicinamento a basse emissioni di anidride carbonica a piedi, in sci-alpinismo, in parapendio o in bicicletta per accedere ai piedi delle vie; ascensioni più rapide, fast & light, discese lungo pendii sempre più ripidi”
Romain Millet
È una fortuna che la frana non abbia distrutto il rifugio, perché il tramonto lassù vale decisamente la pena
di uscire fuori al freddo sulla terrazza che affaccia sui ghiacciai tutto intorno. Dopo qualche disagio tipico
della notte a oltre 3600 metri, ci troviamo tutti a fare colazione in rifugio davanti a un (altro) spettacolo:
l’alba sulle Jorasses, attraversate da una linea rosso fuoco in tutta la loro lunghezza.
Il programma prevedrebbe di scendere a valle, ma riesco a intercettare una delle Guide che sta portando
due ragazzi del nostro gruppo a scalare l’l’Arête à Laurence, una breve ma divertente cresta vicino al rifugio.
Ci leghiamo in cinque, e iniziamo a mordere coi ramponi il ghiaccio duro della mattina sul pendio che porta
fino in cresta. Andiamo avanti tra passaggi di neve e tratti rocciosi, sul (giustamente) famosissimo granito del Bianco.
L’ultima parte della cresta ci fa sbucare proprio sulla terrazza del rifugio: non possiamo farci
mancare un caffè di metà mattina, la giornata è bella ma a queste quote le temperature sono sempre
croccanti. Ci dirigiamo poi verso l’ultima tappa di questo tour chamoniard: la nostra Guida ci sta portando a
vedere un crepaccio in mezzo al ghiacciaio della Vallèe Blanche, poco sotto l’Aiguille du Midi. Lo
attraversiamo da una parte all’altra, è riempito dalla neve e le pareti di ghiaccio che abbiamo a destra e a
sinistra raccontano – sotto forma di stratigrafia – le storie dei fiocchi di neve caduti decenni o secoli fa.
Scendere a valle è come svegliarsi dopo un sogno molto realistico: la pressione mi tappa le orecchie, la
temperatura sale, mi tolgo strati e strati di vestiti di dosso. L’abbronzatura con il segno degli occhiali
passerà presto, ma queste guglie di granito me le ricorderò per un bel po’ di tempo in più.