Ci chiediamo che senso abbia, e, come al solito, non riusciamo a trovare una risposta convincente. Quel che è certo è che nonostante le difficoltà e i momenti in cui ci domandiamo “Chi ce lo ha fatto fare?”, poco dopo aver rimesso i piedi a terra pensiamo già a quando potremo risalire. E infatti, anche questa volta, siamo tornati.
Pubblicato su 4outdoor Magazine #03 – 23 – Testo e foto di: Giacomo Veduti
Il Dillosauro
È passato poco meno di un anno dalla prima volta in cui siamo saliti in cima al Dillosauro: una formazione rocciosa straordinaria ed inconfondibile di granito rosso, che si trova sulla costa orientale della Sardegna. La via è corta – solamente 2 tiri – ma l’esposizione, l’arrampicata non semplicissima e il panorama mozzafiato la rendono una meta ambita.
Nel febbraio del 2022 non ci eravamo fermati nemmeno un secondo sulla cima. Il freddo era quasi insostenibile. Sulla sosta dopo il primo tiro avevamo notato che le mie caviglie scoperte avevano la stessa sfumatura blu di una delle nostre corde. Il problema era soprattutto il vento: soffiava costantemente e con forza dal mare verso la parete tanto che in alcuni momenti era difficile rimanere in equilibrio.
Si infilava nella fessura che caratterizza la prima metà della via e acquistava ancora più spinta, costretto in quello stretto passaggio. Sugli ultimi metri prima della cima invece sembrava soffiare contemporaneamente da quattro o cinque direzioni. Quando avevamo lanciato le corde per scendere, i turbini d’aria le avevano fatte aggrovigliare strettamente, costringendoci a ripassarle interamente una seconda volta per assicurarci che non ci fossero nodi.
La volta buona
Questa volta siamo più fortunati. La temperatura è gradevole e soffia solamente una brezza leggera. Raggiungiamo l’attacco della via dopo circa un’ora e mezza di cammino lungo una strada sterrata che fiancheggia la costa. Qui sorge una falesia di granito chiamata Jurassic Park. In questo luogo la natura sembra davvero incontaminata e da quando siamo partiti non abbiamo incontrato anima viva, ad eccezione di qualche animale al pascolo. Sentiamo solamente il rumore delle onde che si infrangono sulla costa e vediamo soltanto rocce granitiche che spuntano qua e là in mezzo alla fitta vegetazione mediterranea. L’ultimo tratto di sentiero è piuttosto ripido e procediamo in silenzio seguendo gli ometti di pietra che segnano il percorso.
Appena arrivati siamo già pronti per salire. All’inizio di febbraio le giornate sono corte e quando il sole tramonta la temperatura cala notevolmente; per questo motivo preferiamo salire subito sperando di ritornare alle macchine prima che faccia buio. Il sole illumina ancora la parete del Dillosauro ma si sta rapidamente spostando dietro l’alto muro di granito al nostro fianco. Ci siamo divisi i compiti. Io inizio con il primo tiro, un diedro leggermente strapiombante in alcuni tratti, mentre il mio compagno di cordata Kla salirà per primo la seconda lunghezza. Questa idea mi conforta perché il secondo tratto è molto esposto e psicologicamente impegnativo.
La roccia è buona e ci sono ottimi appigli, ma si gira intorno a quel pilastro squadrato che in alcuni punti si fa tanto sottile da poter essere abbracciato. Fino a poco tempo fa Kla pensava di non poter arrampicare oltre il grado 6a+, e si era dato come obiettivo quello di padroneggiare il 6b. Gli sono bastati due o tre giorni sul calcare della Sardegna – e un paio di scarpette nuove – per salire a vista quasi tutti i 6b che incontra. Io sono un po’ fuori allenamento ma il fatto di essere già salito in precedenza mi toglie quella paura dell’ignoto che sento solitamente davanti ad una nuova via.
Quello stato di assoluta concentrazione che si raggiunge arrampicando e che libera completamente la mente da ogni preoccupazione fa sembrare la salita rapidissima.
Siamo già in “vetta”. Kla si azzarda ad alzarsi in piedi, io mi accontento di sedermi su quel metro quadro di roccia piatta e liscissima al quale siamo legati. È incredibile come questo “dito” di roccia separato dalle pareticircostanti sia ancora in piedi. Intorno c’è il vuoto, e la distanza che ci separa dal terreno dal quale siamo partiti si aggiunge a quella che abbiamo percorso a piedi risalendo dal livello del mare.
Le onde continuano ad infrangersi sulla costa a perdita d’occhio ed il sole inizia a segnare ombre marcate sui pendii che scendono verso il mare. Forse anche questo è uno dei motivi per cui scaliamo: ci ricorda e ci permette di apprezzare, da un’altra prospettiva, la bellezza della natura in cui viviamo. Anche questa volta, sogniamo di ritornare.