Un reportage fotografico tra spiritualità millenaria e vita quotidiana: Dino Bonelli ci guida in un viaggio immersivo nella Cambogia, tra i templi di Angkor e i volti autentici del Paese.
Testo e foto: Dino Bonelli

La storia
Angkor fu il centro commerciale, religioso e politico dell’impero Khmer (IX – XV secolo), nel nord dell’attuale Cambogia. Nella sua massima estensione l’impero comprese anche parte delle vicine Thailandia, Laos e Vietnam meridionale da cui i Khmer appresero l’arte del trattenere e convogliare l’acqua, insegnamento che applicarono per bonificare le paludi della vasta pianura alluvionale dove costruirono la loro città più importante. Ora Angkor, considerata il sito archeologico religioso più grande al mondo, e patrimonio UNESCO dal 1992, con i suoi canali ancora funzionanti a circondare i suoi molteplici incantevoli templi, è la maggior attrattiva turistica del Paese, con i suoi pro i e suoi contro.

Pro e contro
Tra i pro, oltre a mostrare queste infinite bellezze Khmer a un numero sempre crescente di visitatori, è da annoverare indubbiamente l’accrescimento dell’indotto turistico che ha creato molte opportunità di lavoro aiutando la popolazione locale a uscire da una povertà cronica. Tra i vari contro, una cementificazione davvero debordante a supporto delle strutture turistiche che si trovano a Siem Reap, la città che fa da base logistica a una decina di chilometri dall’ingresso del sito archeologico, oltre al massiccio inquinamento atmosferico, idrico e acustico conseguente alla folla che, in un crescendo continuo, ha invaso la zona; infine, le lunghe code che si formano a ogni struttura, create dalla massa di persone, provenienti da tutto il mondo, che sono volate fin qui per godere di cotanta bellezza storica.

Siamo trail runner
Ma a noi, trail runner giramondo, l’idea di goderci questo magnifico sito ammassati l’uno sull’altro non piace, quindi decidiamo di visitarlo eludendo gli orari in cui si muove la massa. Dato che a queste latitudini il sole è infuocato e le temperature bollenti, l’onda turistica si allarga tra le meraviglie archeologiche soprattutto la mattina e la sera, lasciando le cocenti ore centrali del giorno ai pochi temerari che, seppur tribolando, preferiscono ammirarle nella quiete del loro essere millenarie. Fa caldo ed è molto umido, si suda, si cerca l’ombra creata sia dalle antiche strutture in pietra sia dalla selva che le abbraccia, e per velocizzare gli spostamenti tra un tempio e l’altro si corre.

Corsa, ma non solo
Le visite all’interno dei vari templi, però, le facciamo camminando, gustandoci tutte le peculiarità dei maggiori luoghi di culto. Tra questi ovviamente c’è Ankor Wat, il tempio più grande e meglio conservato di tutti, una vera e propria icona la cui silhouette è stata posta anche sulla bandiera nazionale. Il Bayon, che con le sue 216 sculture di facce sorridenti, tutte uguali, poste sui quattro lati delle 54 guglie che lo caratterizzano, è forse il più affascinante, quello che ti fa pensare di più al tempo in cui imperatori narcisisti avevano il potere di far riprodurre la loro immagine alla ricerca di una qualche forma d’immortalità.

Il Ta Prohm
Il Ta Prohm, parzialmente e inesorabilmente avvinghiato dalle radici di grossi alberi centenari, che con la sua rude bellezza, dopo aver ispirato gli scenografi di “Indiana Jones”, fu anche set del film “Lara Croft: Tomb Rider” con Angelina Jolie. Va detto che molte delle riprese di quest’ultimo furono anche realizzate al Beng Mealea, un tempio affogato nella foresta a una quarantina di chilometri da Angkor, una delle ultime aree ripulite dalle mine antiuomo disseminate durante la guerra civile cambogiana, conflitto fratricida che ha portato al potere il violento regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi (1975-79). Momento storico, quest’ultimo, in cui si è consumato il massacro di un quarto della popolazione, e ora tristemente conosciuto come il genocidio cambogiano.

Letture consigliate
A proposito di questo drammatico periodo di non troppi anni fa, consiglio la lettura di libri come “Fantasmi” di Tiziano Terzani e “Il sorriso di Pol Pot” di Peter Fröberg, o la visione del film, tratto da una storia vera, “Urla nel silenzio” di Roland Joffè.

Il piacere dell’andare piano
Si corre senza forzare, tra sentieri di terra color ocra che serpeggiano nel verde, e a volte direttamente sui prati ben curati adiacenti ai templi. Talvolta si allunga la falcata, per ridurre i tempi di sofferenza all’esposizione degli ardenti raggi solari, su stradine sterrate o sui lembi di terra attigui al nastro d’asfalto che connette tutte le bellezze archeologiche del parco.

Una superficie, questa, che si estende in un’area di circa 15 km per 7 km. Altre volte, tra le rovine di strutture minori che grazie ai loro ampi cortili lo permettono, si corre direttamente sui grossi lastricati smossi da storica noncuranza e dal tempo, e tra gli alberi che negli anni ci sono cresciuti dentro, saltando fuori qua e la da portali lapidei finemente scolpiti. A fine giornata, beneficiando di una lunga e tortuosa ciclopedonale che serpeggia nella selva parallela alla strada di collegamento con Siem Reap, la città che rappresenta la base ideale per visitare il sito, rientriamo in albergo con una corsa ad andatura decisa. Le corsette di collegamento prima e questi ultimi 12 km poi, nonostante beviamo di continuo, ci disidratano inverosimilmente, ma la possibilità di goderci le meraviglie di Angkor quasi da soli ha ampiamente ripagato lo sforzo.

Fuori dal caos
Durante la visita al tempio di Beng Mealea, non lontano dal nuovo aeroporto internazionale, incontriamo una guida italiana che vive a Siem Reap e che, oltre a fornire interessanti cenni storici sulle opere Khmer, ci suggerisce anche di uscire dal caos turistico della città che ci ospita e scoprire come si vive realmente in Cambogia. Detto, fatto. Sui ricordi delle mie due precedenti visite in questo Paese, il giorno dopo ci direzioniamo verso Battambang, nel nord-ovest, con una serie di mezzi a uso esclusivo dei local.



Mototaxi e treno
Si inizia con un mototaxi, poi si continua su un cassone, stracolmo di merci e persone, fino a una specie di porto fluviale, e da qui si prosegue con una barchetta a motore che, rombeggiando, scivola discretamente veloce su un fiume melmoso. Ogni tanto s’incontrano paesini di palafitte, indispensabili per far fronte alle stagioni delle piogge dove il livello di fiumi e laghi sale di parecchi metri, o case fluttuanti che, grazie alla loro natura, superano l’ostacolo dell’acqua alta galleggiandoci sopra. La vita in questi paesini addormentati sulle rive del loro mondo sembra scorrere al rallentatore.



La povertà
L’evidente povertà è mascherata da un tran tran continuo mosso dalle esigenze del quotidiano e dall’orgoglio indigeno nascosto sotto gli abiti modesti e sgualciti. Le donne, sulle loro canoe, vanno a fare la spesa nei negozi galleggianti, gli uomini trafficano con reti, eliche e motori, perché la pesca è il loro primo sostentamento, poi ci sono le risaie e gli orti stagionali, ma senza pesce qui non si vive. Arrivati nei pressi di una sponda ripida e fangosa, dove altri natanti simili al nostro attendono di imbarcare merci e persone, si scende e si continua sul cassone di un altro fuoristrada che, tra dentro e fuori, ha ammassato 23 persone, tra cui noi, e ovviamente un bel po’ di cose.
Battambang
Battambang è una cittadina che ha conservato diversi palazzi dell’epoca coloniale, quando a farla da padroni in quest’area del Sudest Asiatico erano i francesi ma a noi interessa soprattutto andare a provare – per me riprovare – l’ebrezza dei treni di bambù. Una struttura lignea sostiene una piattaforma fatta di canne di bambù affiancate, su cui poi verrà posata una stuoia e talvolta anche dei cuscini. Questa struttura, che poi è il vagone in questione, viene spostata a mano e appoggiata su due assi metalliche, anticipatamente messe sulle rotaie, alle cui estremità ci sono quattro piccole ruote di treno. Uno di questi assi è provvisto di una cinghia di trasmissione che viene collegata alla puleggia di un motore a scoppio appoggiato in un apposito spazio ricavato al piano del bambù. Muovendo con un piede il motore in avanti o indietro, il conducente fa aumentare o diminuire la presa della cinghia sulla puleggia, aumentando o diminuendo di conseguenza la velocità del vagoncino. I binari sono storti e sconnessi, in quanto rimessi su artigianalmente dalla popolazione locale quando i francesi se ne andarono via portando con sé tutto quello che era possibile, quindi anche pezzi di ferrovia, ma comunque è percorribile ancora anche da veri treni merci.
In carrozza
Saliamo in carrozza e il brivido del treno di bambù, con i suoi scossoni, il suo fruscio e l’aria calda della sera a soffiarci addosso, ci rapisce. Poi un lungo e forte fischio proveniente da dietro ci sveglia dal nostro traballante assopimento. Un treno merci reale sta per raggiungerci e avverte il conducente di smontare il suo mezzo e dargli strada. Coadiuvato da un altro conducente che viaggia con il suo vagoncino un po’ dietro di noi, i due smontano entrambi i trenini, li depositano a terra a un paio di metri dalle rotaie e si lascia passare il convoglio in arrivo. Poi si rimonta il tutto, si risale a bordo, si ballonzola ancora per qualche chilometro e si ritorna nell’improvvisata stazione da cui si è partiti. Qui gente del posto sta montando i propri trenini di bambù per raggiungere, con le merci acquistate al grande mercato cittadino, le case disseminate nella valle, e servite, se così si può dire, dalla ferrovia. Uno scorcio di Cambogia umile e genuina che si mescola con un’attrazione folcloristica che, anno dopo anno, sta diventando sempre più popolare, sperando che nel crescere ulteriormente, non si trasformi nell’ennesimo passo falso del turismo.
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