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Clean Climbing, etica della moderazione in arrampicata

di - 31/08/2022

Cinquant’anni fa, Yvon Chouinard, Tom Frost e Doug Robinson stabilirono un’etica per l’arrampicata che enfatizzava la moderazione e il rispetto per la roccia. Nel 2022 è più che mai necessario cercare di rifarsi a quell’etica.

 

L’articolo originale è stato scritto da Mailee Hung, ed è apparso sul blog Patagonia con titolo (Bring Back Clean Climbing). Tradotto qui da: Marco Melloni

 

“È stato un totale fallimento”

 

All’inizio degli anni ’70, il catalogo Chouinard Equipment proponeva un nuovo tipo di arrampicata, che prevedeva protezioni removibili per l’arrampicata du roccia. Piuttosto che usare la forza bruta per scalare le vie con ogni mezzo necessario, Yvon Chouinard e altri sostenevano che un buon stile contasse più del risultato. La chiamavano “Clean Climbing“. In pratica, il Clean Climbing sostituirebbe chiodi e altri attrezzi con dadi ed eccentrici, nuovi tipi di protezione facilmente rimovibili e meno dannosi per la roccia. Ma l’obiettivo più ambizioso del Clean Climbing era incoraggiare un’etica in cui lo scalatore facesse affidamento sul proprio giudizio e abilità, piuttosto che sull’attrezzatura, e non lasciasse alcuna prova della propria ascesa. Emerso più o meno nello stesso periodo negli Stati Uniti e in Europa, il Clean Climbing ben presto ha cambiato il modo in cui gli alpinisti proteggevano le vie. Ma quando attualmente gli è stato chiesto quale effetto abbia avuto il movimento, Chouinard è stato inequivocabile: “L’unica risposta appropriata è zero“.

 

Clean Climbing, in contrasto con l’arrampicata in falesia

Non serve guardare lontano per vedere cosa intenda. Se il Clean Climbing consisteva nel non lasciare traccia del proprio passaggio, la moderna falesia è ben lontana da questo ideale. Certo, è probabile che qualsiasi scalatore colto con martello o scalpello verrebbe sputtanato sui social, ma difficilmente puoi avvicinarti a una famosa falesia o area boulder e affermare che gli scalatori sono a basso impatto. Le macchie di gesso punteggiano la linea più logica di una via. I rami degli alberi che un giorno pendono inopportunamente sui massi scompaiono il giorno successivo, se non è l’albero a scomparire del tutto.

Alpinisti ignoranti piazzano spit su petroglifi indigeni sacri e delicate formazioni rocciose, oppure trascinano i loro materassini sulla fragile flora del deserto. Se l’arrampicata pulita fosse davvero l’etica dominante dell’arrampicata odierna, non esisterebbero le giornate dedicate alla pulizia della falesia ad ogni evento pubblico. Non ci sarebbe bisogno di rimuovere centinaia di chili di spazzatura e attrezzatura da arrampicata abbandonata ogni anno durante lo Yosemite Facelift.

Foto: Tom Frost

Allo stesso tempo, l’influenza del Clean Climbing sembra chiara. Anche se non sono sempre all’altezza del loro ideale, gli alpinisti hanno ampiamente adottato i principi del “non lasciare tracce” nonostante i dibattiti in corso su quando chiodare, come affrontare una via o quanto “giardinaggio” è consentito. Al giorno d’oggi, nessun alpinista vuole lasciare dietro di sé alcun equipaggiamento e la stragrande maggioranza degli alpinisti non ha mai usato e non userà mai i chiodi. Quella che un tempo era la principale modalità di protezione è stata spinta molto ai margini dell’alpinismo, se non direttamente nei musei. La protezione rimovibile, offre vantaggi così evidenti per lo scalatore che la maggior parte considera i chiodi reliquie di un oscuro passato.

Perché Chouinard è certo che il Clean Climbing sia stato un totale fallimento?

Per avere un’idea più completa dell’influenza positiva o negativa del Clean Climbing, dobbiamo tornare all’età d’oro dell’arrampicata su roccia negli Stati Uniti: gli anni ’50 e ’60. Alcuni dei migliori e più audaci scalatori abbandonarono la corsa al consumismo del dopoguerra per vivere semplicemente, e ai confini della legalità tra le foreste e le cattedrali di pietra. Questi primi esploratori portarono l’alpinismo su pareti sempre più ripide. Ma mentre le tecniche si sono evolute per tenere conto di ambizioni sempre più verticali, gli strumenti sono rimasti relativamente invariati.

A quel tempo, la rastrelliera di uno scalatore poteva includere molti chili di chiodi metallici da piantare nelle pareti rocciose per proteggersi da una caduta. Nell’etica della Yosemite Valley e altrove, questi chiodi sarebbero stati rimossi per preservare la difficoltà della via agli arrampicatori successivi. Decenni di questo metodo hanno prodotto centinaia di cicatrici, fori nelle crepe in tutto il paese, e specialmente in tutta la Valle. Forse la cicatrice rocciosa più famigerata è il primo tiro di Serenity Crack, riconoscibile ancora oggi per l’odiosa serie di fori irregolari che perforano la sua lunghezza. Le fotografie della via circolavano all’inizio degli anni ’70 tra la comunità degli arrampicatori, come le conseguenze di un terribile incidente automobilistico ripreso dalle telecamere. Qualcosa doveva essere fatto.

Chouinard forgiava i suoi chiodi dal 1957. Nel 1970 la sua azienda, Chouinard Equipment, era il principale produttore di attrezzatura da arrampicata negli Stati Uniti e i chiodi erano di gran lunga il prodotto più venduto. Ma nel 1972, Chouinard e il suo socio in affari, Tom Frost, aprivano il catalogo Chouinard Equipment con un saggio che esortava i lettori a smettere di usare chiodi. “Le montagne sono limitate“, scrivevano Chouinard e Frost, “e nonostante il loro aspetto massiccio, sono fragili“. Seguì un articolo di 14 pagine di Doug Robinson, in parte istruzioni, in parte manifesto del Clean Climbing.

Foto: Earle

Sostenevano che lo scopo dell’arrampicata fosse creare una comunione più profonda fra se stessi e la natura, e preservare l’ambiente per gli scalatori a venire. “Riteniamo che l’unico modo per garantire l’esperienza di arrampicata per noi stessi e per le generazioni future sia preservare (1) la natura selvaggia verticale e (2) l’avventura insita nell’esperienza“, sostenevano Chouinard e Frost. Se non potevi scalare una via con le tue forze e senza danneggiare la roccia, allora non avevi motivo di scalare la via finché non ci fossi riuscito. Il manifesto del Clean Climbing affermava che montagne e pareti rocciose non erano obiettivi da conquistare ma luoghi a cui avvicinarsi con rispetto. Il passaggio a un nuovo tipo di protezione ha supportato questa prospettiva: “Per posizionare un dado devi iniziare pensando alla forma delle crepe“, scrisse Robinson. “Fin dall’inizio il Clean Climboing richiede una maggiore consapevolezza dell’ambiente roccioso.”

 

Il Clean Climbing è più dell’uso delle Protezioni mobili

Prima che dadi ed eccentrici diventassero popolari, era normale per gli arrampicatori aspettarsi che la loro attrezzatura potesse aiutarli a salire una via. Il Clean Climbing ha esortato a utilizzare l’attrezzatura solo come protezione dalle cadute; la tecnica, la forza e la consapevolezza di uno scalatore li ha educati. Questa era l’arrampicata “libera”, e mentre il concetto esisteva già prima del movimento Clean Climbing, il Clean Climbing lo ha spinto da UNO STILE di arrampicata a LO STILE.

 

Chouinard e i suoi seguaci si aspettavano che il Clean Climbing avrebbe ricentrato l’autosufficienza, l’audacia della visione e l’umiltà davanti al mondo naturale rimuovendo la possibilità, sia etica che pratica, di un’esperienza mediata. Ma non è quello che è successo. Il Clean Climbing è riuscito a tracciare nuovi confini per quella che si può considerare una scalata equa, ma non è riuscito a eliminare gli attrezzi distruttivi. Per certi aspetti è stato addirittura vittima del suo stesso successo.

Il passaggio alla protezione rimovibile alla fine ha portato a benefici sportivi per molti innegabili: un’arrampicata più tecnica, più dinamica e, probabilmente, più interessante. Più ti allontani dal dover pensare a posizionare una protezione, più puoi dare la priorità al movimento. E se non devi posizionare affatto una protezione, come nell’arrampicata sportiva, puoi isolare ancora di più il movimento.

 

Sebbene le medaglie d’oro olimpiche fossero state assegnate per l’alpinismo tra il 1924 e il 1936 (alcune postume), il Comitato Olimpico Internazionale decise di smettere di riconoscere i risultati dell’alpinismo nel 1946. Questa eredità irresoluta è in netto contrasto con il debutto di successo dell’arrampicata sportiva alle Olimpiadi del 2020, che ha confermato l’affermazione di Chouinard che l’arrampicata sportiva è semplicemente questo: uno sport. E’ probabilmente più atletico, ma manca di rischi reali e non richiede di essere alle prese con un ambiente mutevole, elementi che distinguono il Clean Climbing.

Kate Rutherford climbing the West Face of the Leaning Tower, Yosemite National Park.
PHOTO CREDIT: ©Ken Etzel

Naturalmente, relativa sicurezza e controllo sono essenziali per superare i limiti fisici dell’arrampicata. Mentre l’audacia del free climbing a vista mantiene il suo posto all’apice dei risultati dell’arrampicata, un successo a vista non è mai fatto al massimo del tuo potenziale di arrampicata. I livelli di picco richiedono precisione, protocolli di allenamento rigorosi e diete accuratamente calibrate. I video su Internet ti dissuadono dal perdere tempo o energie preziose per capire una sequenza da solo.

Le prese vengono spazzolate e le mosse provate con la corda dall’alto. Tutti i valutatori sono scienziati, che rimuovono quante più variabili possibili per aumentare le probabilità di un successo. Anche alcuni dei free solo più celebri sono stati eseguiti dopo un’ossessiva ricerca, formazione e prove con l’attrezzatura. Per alcuni, “Clean” è distillare l’arrampicata fino a una contesa tra lo scalatore e la roccia, le sfide più grandi affrontate eliminando l’ignoto piuttosto che abbracciandolo. L’esplorazione è stata lasciata nel dimenticatoio e con essa la preminenza degli ambienti che la definiscono. Le vere avventure non sono efficienti.

 

Ha senso dire che l’obiettivo di arrampicata atletica altamente provato e strettamente controllato sia risultato diretto del movimento Clean Climbing. Secondo Robinson, pochi hanno accettato la chiamata del Clean Climbing perché era la cosa giusta da fare. “Un imperativo morale è un valido motivatore umano”, dice, ma…

 

ma il migliore è l’eccitazione. È stata una bella sfida. Possiamo farlo? Possiamo farcela? Nessuno lo sa all’inizio“.

 

Tuttavia, testare se la purezza del Clean Climbing oggi regga le aspirazioni dell’arrampicata pulita di cinquanta anni fa non ha senso. Nonostante tutti i suoi difetti e fratture umane, lo spirito dell’arrampicata moderna è ampio, accogliente e pronto ad affermare che chiunque ami l’arrampicata è uno scalatore. Se lodiamo la comunità di alpinisti per questo calore, allora difficilmente possiamo affermare che rischiare la vita alla ricerca della purezza è l’unica forma degna di arrampicata. Il valore del Clean Climbing è la sua provocazione a esaminare cosa vogliamo ottenere dall’arrampicata e cosa dovremmo. Sfida gli scalatori a ricordare che questa ricerca piuttosto egoistica e occasionalmente solitaria colpisce gli altri, e c’è un’esperienza più profonda e significativa da trovare affrontando questa sfida invece di concentrarsi singolarmente sul desiderio di raggiungere la vetta.

 

Il Clean Climbing è più di un argomento astratto

Traccia una linea retta dall’etica alla politica. Nel 1998, l’American Alpine Journal ha pubblicato un articolo di Chris McNamara sul futuro dell’arrampicata su roccia nello Yosemite in cui affermava: “Da quando Doug Robinson ne scrisse per la prima volta nel catalogo Chouinard del 1972, il Clean Climbing è stato la cosa giusta da fare. Lo è ancora; ma sempre di più, se l’arrampicata deve durare, è necessario anche fare”. L’affermazione di McNamara suona particolarmente vera oggi: nel maggio 2021, il National Park Service ha iniziato a richiedere permessi per i soggiorni di arrampicata di più giorni in Yosemite, una risposta diretta alla spazzatura abbandonata e all’attrezzatura che i ranger incontravano ogni giorno, da anni. L’accessibilità e la cura dell’ambiente corrispondono direttamente alla cura per l’altro, qualcosa che può e deve essere esteso in modo più ampio, e non solo al gusto di arrampicarsi in spazi selvaggi.

 

La guerra in Vietnam, le rivolte di Stonewall, l’assassinio di Martin Luther King Jr., l’ascesa del femminismo di seconda ondata… Il 1972 potrebbe aver visto la (di breve durata) rielezione di Richard Nixon, ma ha anche portato ulteriori sconvolgimenti politici e culturali, e gli autodefiniti sfigati come Chouinard e Robinson hanno rinunciato. “Non stavamo resistendo a nulla; stavamo solo vivendo le nostre vite”, dice Chouinard.

Tuttavia, per altri, vivere semplicemente la propria vita era, ed è tuttora, una forma di resistenza e rinunciare non è un’opzione. Le conseguenze del rifiuto di conformarsi alla società sono radicalmente diverse, anche violentemente diverse, nelle comunità e nelle identità. Chouinard ha ragione: il rifiuto non è uguale alla resistenza. Ma per quelli di noi che hanno la libertà di rifiutare, la scelta del Clean Climbing è un’opportunità per partecipare, per prendere la prospettiva di Chouinard e dei suoi compagni e rivolgerla verso il resto del mondo.

 

Il Clean Climbing ci dice che possiamo smettere di fare le cose che danneggiano il nostro ambiente o degradano le esperienze di altri alpinisti e, fermandoci, possiamo trovare un modo migliore per tutti. Il Clean Climbing è una nuova forma di vecchia saggezza, quella che considera gli altri e il nostro impatto su di loro. Come ha scritto Robinson nel suo saggio, “Il modo migliore per iniziare ad arrampicare in modo pulito è imparare di nuovo ad arrampicare da zero“.

Foto: Tom Frost

Il Clean Climbing è la mitigazione del danno

Ma la mitigazione del danno non è sexy; è un’accettazione della realtà. Per alcuni, tale accettazione è di per sé un’ammissione di fallimento. La realtà della nostra umanità, il fatto fondamentale che tutto ciò che tocchiamo porta la nostra traccia, è un fallimento. L’arrampicata pulita riconosce questa realtà e ci sfida a essere intenzionali su quali tracce lasciamo dietro di noi. Come gli indigeni hanno sempre saputo, e come alcuni di noi hanno imparato tardivamente, tutte le nostre vite e tutti questi spazi – sacro e profano, urbano e selvaggio – sono collegati. Allontanarsi da uno significa allontanarsi dall’altro.

 

Come tutti i movimenti, il Clean Climbing è un verbo. È una pratica che deve essere attuata, rinnovata e in cui ri-impegnarsi. Clean Climbing significa moderazione di fronte al nostro ego e umiltà di fronte alla natura, uno sforzo di padronanza di sé piuttosto che di dominio del mondo. Queste sono le idee che ci ispirano, l’entusiasmo di cui abbiamo bisogno per affrontare la sfida di salvare il nostro pianeta natale. Perché se c’è un posto in cui non possiamo fallire, è qui. Possiamo farlo? Possiamo farcela? Nessuno lo sa, per ora. C’è solo un modo per scoprirlo.

 

Patagonia Clean Climbing Collection

Diplomato in Arti Grafiche, Laureato in Architettura con specializzazione in Design al Politecnico di Milano, un Master in Digital Marketing. Giornalista dal 2005 è direttore di 4Actionmedia dal 2015. Grande appassionato di sport e attività Outdoor, ha all'attivo alcune discese di sci ripido (50°) sul Monte Bianco e Monte Rosa, mezze maratone, alcune vie di alpinismo sulle alpi e surf in Indonesia.