Pubblicità

Cosa ci rimane dei Mondiali

di - 14/08/2017

Un Mondiale tra i più belli di sempre, che per spettacolo, storie e temi tecnici è sembrato superiore anche alle Olimpiadi dello scorso anno. A Londra è calato il sipario su un evento andato ben oltre le aspettative della vigilia e che merita alcune riflessioni a consuntivo, guardando anche al di là della controprestazione italiana dalla quale non si può non partire.

UNA CRISI INFINITA

Il bronzo nella marcia della bravissima Antonella Palmisano non copre una spedizione azzurra che ha toccato i minimi storici, mettendo in mostra tutto quanto di sbagliato c’è nell’atletica italiana, ma a questo punto è sbagliato addossare tutte le colpe sugli atleti. I problemi sono più a monte, in un sistema che non fa proselitismo nelle scuole dove l’educazione fisica è solo sinonimo di lunga pausa dalle lezioni, in una Federazione diventata un vero e proprio ministero dove i dirigenti, scelti fra i presidenti di società, fanno gli interessi dei propri sodalizi, in un settore tecnico che negli ultimi decenni ha fatto evidenti passi indietro per mancanza di aggiornamenti, in atleti che arrivano all’appuntamento clou stanchi per la ricerca del minimo  quando non addirittura demotivati. Tutti poi a cercare alibi, quando invece bisognerebbe ragionare sui perché di una sconfitta. Alcuni casi emersi a Londra sono esemplari: la Trost a livello giovanile era la migliore al mondo, la stessa Kuchina oro a Londra veniva sempre battuta, ora invece c’è un abisso fra le due. Molti hanno accusato gli atleti azzurri di non essersi migliorati nell’occasione che conta, ma il problema non è solo questo: nel lungo tutti sono stati a decantare le lodi dei tre atleti che hanno valicato gli 8 metri d’inverno ad Ancona. Di loro a Londra non ce n’era uno, e chi c’era, Ojiaku autore di 8,20 per andare ai Mondiali, ha saltato solo 7,62. Non è la grande prestazione fine a se stessa che va ricercata, ma la costanza ad alti livelli. Il 2,39 di Tamberi (bravissimo a tornare dopo l’infortunio, e una delle poche vere carte azzurre da giocare per il futuro) è arrivato una volta, ma per vincere una medaglia basta essere costanti e sicuri a 2,33-2,34. Manca questa concezione, la ricerca del miglioramento medio, si cerca sempre il jolly, ma questo lo si trova raramente.

Antonella Palmisano, unica medaglia azzurra ai Mondiali (foto Giancarlo Colombo/Fidal)

LA CADUTA DEGLI DEI

Un Mondiale bellissimo che ha visto molti pronostici ribaltati. Di Bolt tutti hanno detto e scritto, ma forse ancora più impronosticabile era la sconfitta di Farah sui 5000, con il britannico finalmente irretito in un gioco di squadra reale, messo in campo dagli etiopi con Keyelcha sacrificatosi a fare da specchietto per le allodole, Banega (nome da appuntarsi come futuro re delle piste) a mettere fastidio al re e Edris finalmente capace di mostrare in pista il mortifero finish che gli ha regalato tanti successi nel cross. Lo stesso dicasi nella gara femminile dove dopo il dominio sulla distanza doppia tutti pronosticavano la Ayana, messa in crisi dalla volata lunga della kenyana Obiri più avvezza alla specifica prova. Ma la grande sorpresa è arrivata dai 3000 siepi, con la doppietta americana di Emma Coburn e Courtney Frerichs capaci di dare scacco matto alla folta pattuglia kenyana, con ben 4 atlete.

Il terribile momento dell’infortunio a Bolt in staffetta (foto Giancarlo Colombo/Fidal)

LA GRANDE SCUOLA AMERICANA

Il lavoro in profondità che la Federazione americana ha voluto fare nel mezzofondo è arrivato a compimento, con gli atleti a stelle e strisce che hanno preso medaglie a ripetizione: dei 3000 siepi femminili si è detto, ma non vanno dimenticate le prove di Jager nelle siepi maschili, di Chelimo bronzo sui 5000, della Cragg bronzo in maratona. Gli americani hanno dimostrato che la superiorità africana ha sì un fondamento, ma è un alibi dietro il quale è facile nascondersi. I campioni africani c’erano anche negli anni Ottanta, quand’era l’Italia il riferimento assoluto. Ce ne siamo dimenticati, ci siamo abituati, non facciamo neanche più caso a gare su strada di 10 o 21 km dove la Top 10 è una sfilza di africani tesserati per società italiane. In America hanno dimostrato che si possono cambiare le cose e altre nazioni stanno andando dietro.

Frerichs e Corbu, argento e oro sui 3000 siepi (foto Giancarlo Colombo/Fidal)

KENYA, UN MOMENTO DIFFICILE

Un bilancio con 5 ori e 11 medaglie complessive non è certo da buttar via, ma l’armata kenyana ha mostrato delle crepe. Se su strada Kirui e la Kiplagat hanno fatto il loro dovere, su pista non sono mancate le controprestazioni, 5 e 10 mila maschili hanno visto gli atleti di Nairobi assoluti comprimari, fra le donne la Obiri, talento puro, non può nascondere un difficile ricambio generazionale. L’Etiopia, con 5 medaglie di cui 2 ori, ha un bacino più concentrato sulle distanze lunghe, mentre il Kenya mantiene una certa supremazia nel mezzofondo veloce. Molto ora cambierà: Farah si dedicherà alla maratona, tre anni per costruire l’ennesima grande impresa, in pista si apre la lotta per la sua successione e questa è solo una delle grandi attrattive del futuro, che speriamo si colori d’azzurro almeno un po’.

La bellissima sfida fra la kenyana Obiri e l’etiope Ayana sui 5000 (foto Giancarlo Colombo/Fidal)