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Danilo Callegari, l’avventura è ovunque!

di - 26/12/2019

Ciao Danilo, raccontaci di come e quando è nato l’amore per l’avventura e la montagna, lo si deve alla tua famiglia o a cosa?

Questo amore è nato in modo del tutto spontaneo dentro di me, i miei genitori non frequentavano la montagna ma io già a circa 8 anni ne subivo il fascino. Per me era un terreno d’azione e il fare esperienze intense, in generale, già allora mi attirava, basti pensare che mi ero lanciato dal primo piano con l’ombrello.

A 14 anni salii la mia prima montagna, partendo da casa in bicicletta con l’idea di raggiungere la cima più alta del Friuli. Ci misi un paio di giorni solo per arrivare alla base della montagna e raggiunsi la cima, di quasi 2.900 m, con un tempo bruttissimo che non mi consentì di vedere alcun panorama.

Quella prima cima per me rappresentava un simbolo e ripensandoci oggi vedo un fortissimo quanto non voluto collegamento fra quella prima avventura e quelle che compio oggi, spinte dal medesimo motore, la curiosità di scoperta e di mettermi alla prova.

Dopo il liceo ti sei arruolato nell’esercito (nella Brigata Folgore), per poi partire volontario per l’Iraq. Ci parli del perché di questa scelta e dove ti ha portato?

Da ragazzino avevo due passioni, quella per l’avventura, ricordiamo che erano gli anni del team Sector – No Limits, e quella per l’esercito e i suoi reparti speciali.

Ricordo che in terza elementare, durante una cena con i miei genitori, guardando alla televisione le immagini dell’Operazione Desert Storm, la Guerra del Golfo, dissi: io voglio fare quello.

La sorte mi portò nel 2005 proprio in Iraq con le unità speciali, rimasi nei reparti per quasi 4 anni, poi proprio con la guerra si concluse la mia esperienza nell’Esercito.

A quel punto decisi di coronare l’altro mio grande sogno, quello di fare l’avventuriero di professione, cosa che ormai faccio da 11 anni.

Aria, terra, acqua, questi tre elementi ricorrono spesso nelle tue avventure, per quale motivo?

Mi ha sempre affascinato la capacità di sapermi muovere in ambienti diversi, che è un po’ quello che ho imparato nei reparti speciali, inoltre ho la tendenza ad annoiarmi in fretta,

quindi cambiare ambiente, rende si le cose più complicate ma anche più stimolanti.

Emozioni e passione sono le motivazioni che mi consentono di affrontare le mie sfide.

Shisha Pangma, nel 2013 hai dovuto rinunciare alla vetta a causa delle condizioni climatiche. Dopo essersi preparati per mesi ad un progetto del genere, quanto costa doverci rinunciare?

Beh, a posteriori, la rinuncia è una delle più importanti esperienze che si possano fare in questo contesto.

Quel progetto era un’avventura articolata in 5 mesi, in cui avrei toccato: Tibet, Nepal e India che avrei attraversato in bicicletta, compreso il deserto al confine con il Pakistan.

Trovarsi lì e dover rinunciare alla vetta è stato davvero difficile. Il sacrificio per preparare una spedizione del genere è grande, come è grande il sacrificio per arrivare intorno ai 7.000 m da soli, senza supporti e senza ossigeno. Su montagne di questo tipo però essere vicini alla vetta vuol dire essere comunque a ore di distanza da essa e bisogna combattere quindi fra la sensazione di essere vicini al traguardo e la consapevolezza che in determinate condizioni, tentare di raggiungerlo, possa portare alla morte.

Col senno di poi posso dire di essere contento di tutte le scelte fatte fino ad oggi, semplicemente perché sono ancora vivo.

 

Ottobre 2015, progetto Africa Extreme. Attraversare a nuoto l’oceano per 50 km dall’isola di Zanzibar, coprire di corsa 1.150 km a piedi e superare 8.300 m di dislivello complessivo fra salita e discesa dalla vetta del Kilimanjaro, 5.895 m.

Da cosa nasceva questo progetto e cosa è stato più difficile affrontare in questa avventura?

Io questa la chiamo l’avventura dei numeri e doveva essere una sfida per il corpo e per la mente, attraversando un ambiente che non era il mio, il mare aperto.

Quest’avventura è stata molto apprezzata dal pubblico, perché chiunque abbia fatto qualche vasca in piscina e sia andato qualche volta a correre, può immaginare cosa possano essere 50 Km di nuoto nell’Oceano Indiano in 23 h, più 1.150 Km di corsa, corrispondenti a 27 maratone in 27 giorni attraverso la Tanzania, più l’attraversata del Kilimanjaro in 20,56 h.

La preparazione è durata un anno e mezzo, una preparazione meticolosa e quotidiana, estremamente provante per quanto riguarda il nuoto. Si tenga conto che io in piscina facevo letteralmente qualche vasca ogni tanto e sono arrivato ad allenarmi 6 giorni su 7 dai 14 ai 16 Km al giorno. La soddisfazione però è stata grandissima e ho dimostrato che la forza di volontà, di fronte ad obiettivi importanti, può davvero far superare ostacoli enormi.

Accennavo prima ad una sfida fisica e psicologica, ecco si tenga conto che il tratto di Oceano fra Zanzibar e la costa della Tanzania è attraversato da correnti fortissime, battuto da onde frangenti e infestato di squali, e per molte ore ho nuotato di notte.

Dal caldo dell’Africa al gelo dell’Antartide, passando nel 2016 per la scalata del Manaslu (8.156 m).

Nel 2018 avevi l’obiettivo di raggiungere il Polo Sud Geografico trainando una slitta da 160 Kg per 1.200 Km, per poi scalare il tuo 4° Seven Summit, il Monte Vinson 4.897 m e paracadutarti da un aereo da 5.000m in caduta libera.

Che difficoltà hai incontrato?

Purtroppo ho dovuto rinunciare al Polo Sud Geografico a circa metà del percorso per via delle condizioni climatiche. C’erano forti venti catabatici e temperature attorno ai -40°, -45° C, tuttavia avanzavo secondo la media programmata.

Successivamente è entrata di colpo l’estate antartica che ha alzato tantissimo la temperatura e modificato la direzione e ridotto l’intensità dei venti. In 24 h le temperature sono salite di 27° C. Quindi è entrata un’enorme perturbazione dal Pacifico che ha stazionato diverso tempo sull’Antartide scioccando me e tutto il personale della base americana. Ha cominciato a cadere una quantità di neve impressionante, o meglio è caduto ghiaccio per giorni, giorni e giorni. Data l’aridità del luogo questo ghiaccio una volta arrivato a terra polverizzava, avevo 40 cm di polvere sul terreno e la slitta era diventata un aratro, con le pelli sotto gli sci che non facevano più nessun attrito ma slittavano solamente. A quel punto rischiavo di non arrivare al Polo e di non aver più tempo per farmi recuperare, perdendo quindi la possibilità di scalare il Vinson e fare il lancio con il paracadute. Ho richiesto il recupero, sono rientrato alla base e dopo qualche giorno di attesa ho effettuato il lancio con il paracadute. Il giorno di capodanno ho raggiunto la vetta del Vinson.

Voglio precisare le ragioni che mi hanno spinto, pur non avendo raggiunto l’obiettivo del Polo Sud, a portare a termine il progetto e la scalata del Monte Vinson. Il progetto 7Summits Solo infatti ha la peculiarità che attorno a queste scalate creo un’avventura più ampia e spesso più impegnativa della scalata stessa, tuttavia l’obiettivo fondamentale è la salita delle sette cime dei sette continenti.

 

Paracadutarsi in Antartide è differente dal farlo vicino all’equatore? Per quale motivo?

Paracadutarmi in Antartide rappresentava un record italiano, nessun italiano lo aveva mai fatto prima. I rischi di un lancio a quella latitudine sono legati essenzialmente alle bassissime temperature e alla differente pressione atmosferica.

Le incognite erano rappresentate da come avrebbe reagito il mio corpo e l’attrezzatura. Dopo il lancio da 5.000 m ho raggiunto una velocità di 273 km/h, una velocità maggiore di quella di un normale corpo in caduta libera alle nostre latitudini, per via della minor densità dell’aria. La temperatura raggiunta a causa delle condizioni atmosferiche, unite alla velocità, aveva un valore percepito di -90°C, questo per 33”, il tempo di aprire la vela. I dubbi erano quindi: le mani si sarebbero congelate a quella temperatura? Le cornee, se l’aria avesse raggiunto gli occhi? Il paracadute si sarebbe aperto o l’eventuale umidità, ghiacciandolo, ne avrebbe impedito l’apertura? Il sistema di apertura automatico (che agisce attorno ai 350 m dal suolo) avrebbe funzionato in caso di guasto del paracadute principale?

Un’altra incognita era rappresentata dagli altimetri, ne avevo due, uno alla mano e uno acustico nel casco. Ai poli la pressione atmosferica è differente e gli altimetri funzionano anche con la pressione, non sapevo se avrebbero sballato l’indicazione e non potevo permettermi di aprire l’ala troppo alto, per via dei forti venti in quota. Così ho fatto riferimento alle montagne che avevo attorno, che sapevo alte circa 2.400 m, e ho trazionato l’ala a 900 m dal suolo.

I tuoi progetti prevedono sempre che tu sia solo. Qual è il periodo più lungo che hai passato da solo e perché questa scelta?

Farei una distinzione, se intendi solo senza vedere nemmeno una mosca, allora parliamo dei 43 giorni in Antartide, se al contrario intendi una spedizione organizzata in solitaria, allora parliamo dei 153 passati fra Nepal, Tibet e India, dove comunque incontravo delle persone.

Parto da solo perché credo sia il modo migliore di sfidare se stessi e portare a casa qualcosa che se fossi in compagnia sarebbe molto differente.

Quando sei solo hai al 100% in mano la tua vita e di fronte ad una decisione importante, che può determinare la tua vita o la tua morte, hai la piena responsabilità di te stesso.

 

Provi mai paura per quello che fai? Come la gestisci?

Le persone confondono spesso la paura con il panico, controllare la paura vuol dire saper controllare te stesso. La paura è una costante, è l’emozione più bella che si possa provare. La paura è qualcosa che ti tiene vigile e attento ed è anche, in parte, la molla che mi fa fare quello che faccio.

 

Dove ti porterà la prossima avventura?

Non posso anticipare nulla, anche se è tutto pianificato. Sicuramente porterò avanti il progetto 7Summits Solo ma prima ci sarà un’avventura esterna al progetto. La annuncerò a marzo.

Eva è nata e cresciuta a Roma, dove ha studiato giurisprudenza per capire che è una persona migliore quando non indossa un tailleur. Ha lasciato la grande città per lasciare che il vento le scompigliasse i capelli sulle montagne delle Alpi e presto ha scoperto che la sua passione per l’outdoor e scrivere di questa, poteva diventare un lavoro. Caporedattrice di 4outdoor, collabora con diverse realtà del settore outdoor. Quando ha finito di lavorare, apre la porta della baita in cui vive per sciare, correre, scalare o per andare a fare altre gratificanti attività come tirare il bastone al suo cane, andare a funghi o entrambe le cose insieme.