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Feyisa Lilesa, asilo politico negli Usa?

di - 25/08/2016

Non è tornato da eroe. E neanche da nemico della patria. Mentre i suoi compagni atterravano in Etiopia Feyisa Lilesa è rimasto in Brasile. Non girerà per Addis Abeba mostrando la sua medaglia d’argento. Perché la sua maratona più difficile, e non poteva non saperlo, Lilesa l’ha cominciata domenica arrivando sul traguardo di Rio, dopo due ore, nove minuti e rotti, con un gesto che nessuno a questi Giochi aveva osato compiere prima di lui.

Un gesto di protesta politica. Alzando le braccia incrociate sopra la fronte, i pugni chiusi, gli occhi bassi. Il segno delle manette, che nelle strade di casa sua sono diventate il simbolo di una rivolta che negli ultimi mesi sta infiammando (nel silenzio internazionale) il Paese del miracolo economico africano (la cui stabilità è cara all’Occidente), la seconda nazione più popolosa del Continente con 95 milioni di abitanti e forti squilibri sociali che prendono la forma di tensioni etniche.

“Il governo etiope sta uccidendo il mio popolo – ha detto il ventiseienne Lilesa dopo la gara – Io sostengo la loro protesta, perché gli Oromo sono la mia gente. I miei familiari sono in prigione, se osano parlare di diritti e democrazia vengono uccisi. Se torno, rischio anch’io di essere ucciso. O di finire in carcere”.

Le Olimpiadi sono finite, ma Feyisa Lilesa è rimasto là, sul traguardo, congelato in quel gesto in mondovisione. L’ipotesi più probabile è che possa chiedere asilo in Brasile e poi negli Stati Uniti. Il suo agente, l’italiano Federico Rosa, da Brescia racconta al New York Times che Lilesa “non vuole tornare in Etiopia. Non sappiamo cosa farà. Dopo la gara era molto felice della medaglia e anche un po’ confuso”.

Il gesto di Lilesa all'arrivo della maratona olimpica (foto Giancarlo Colombo/Fidal) Il gesto di Lilesa all’arrivo della maratona olimpica (foto Giancarlo Colombo/Fidal)

Nessuno sapeva che avrebbe compiuto quel gesto. Sua moglie e suo figlio che lo guardavano in tv dall’Etiopia, i suoi amici, l’agente. Nessun. Il governo di Addis Abeba ha assicurato che il runner potrebbe tranquillamente tornare in patria, dove lo aspetta “un’accoglienza da eroe”. Invece fa bene ad avere paura, racconta al Wall Street Journal il ricercatore di Human Rights Watch che ha documentato la repressione degli ultimi dieci mesi (almeno 400 morti, in massima parte civili di etnia Oromo, con centinaia di arrestio anche fra i minorenni). Una medaglia olimpica non è uno scudo. Felix Horne ha parlato con “numerosi atleti di livello mondiale che sono stati arrestati in Etiopia per motivi politici, per i loro legami familiari, per il rifiuto a sostenere il governo”.

Gli Oromo sono il maggior gruppo etnico (25% della popolazione). Negli ultimi mesi hanno tessuto alleanze con un gruppo storicamente rivale, gli Amhara. Entrambi si sentono discriminati dai Tigrini, che con il loro 6% riescono a dominare il governo, l’esercito e l’economia. Sottole tensioni etniche covano problemi legati alla divisione delle risorse e della terra. Le ultime proteste sono partite nel novembre scorso a Ginchi, nella terra Oromo, quando la gente ha cominciato a manifestare contro il disboscamento di una foresta a favore di investitori stranieri e la confisca di uno spazio che i ragazzi usavano per giocare a pallone.

Migliaia di manifestanti per le strade sono stati accolti dalla reazione violenta della polizia. Il gesto delle manette e il passaparola sui social network sono diventati i simboli della protesta. Fino alla tagliente vetrina di Rio. La maratona più lunga, per Feyisa Lilesa e per il suo Paese, è appena cominciata.

Michele Farina – Corriere della Sera