Silvia Loreggian è nata a Padova nel 1990, e non troppi anni dopo ha deciso che la vita d’ufficio non faceva per lei: così è volata in Patagonia, per capire cosa fare nella vita tra una guglia di granito e l’altra. Oggi è Guida Alpina e la montagna è la sua professione, inoltre è tra le quattro italiane partite per il K2. Le abbiamo parlato nel bel mezzo degli ultimi preparativi, e ci ha raccontato dei suoi progetti e della sua idea di alpinismo.
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Ciao Silvia, sapresti raccontarmi un episodio o un momento preciso che ti hanno fatto decidere di fare della montagna il tuo lavoro?
È iniziato tutto dall’arrampicata, attorno ai miei vent’anni, quando ho deciso che volevo praticarla in modo un po’ più serio. In due settimane è diventata una droga, che si è poi allargata a tutti gli altri modi di vivere la montagna. Lavoravo in un’agenzia di viaggi, e ho deciso di mollare tutto per partire per una spedizione alpinistica in Patagonia. Quando sono tornata mi sono trasferita a Chamonix per vivere l’alpinismo a tutto tondo, e da lì ne ho fatto la mia priorità.
La decisione di diventare Guida è arrivata dopo, anche perché contrariamente a molti in questo ambiente ho scoperto dell’esistenza di questo mestiere abbastanza tardi. Prima di allora, la montagna l’avevo sempre frequentata grazie alla famiglia e agli amici ma solo nel tempo libero e durante le vacanze.
Fare la Guida Alpina mi piace moltissimo: è ovvio però che si tratta di un lavoro, non coincide esattamente con la mia passione. È ben diverso andare in montagna con i miei amici o per i miei progetti personali e andarci con i clienti. Ma di tutti i mestieri possibili, credo che questo sia il migliore per me, ogni giornata che passo a lavorare è una bella giornata (salvo rare eccezioni) e un bel modo di trasmettere qualcosa alle persone che decidono di legarsi alla mia corda. Inoltre mi permette di trascorrere del tempo in posti belli e vivere esperienze forti con le persone.
Fare la Guida Alpina mi piace moltissimo: è ovvio però che si tratta di un lavoro, non coincide esattamente con la mia passione.
Silvia Loreggian
In passato hai organizzato diverse spedizioni: qual è stata per te la più significativa?
Credo che la spedizione più importante per me sia stata quella dell’estate scorsa in Alaska con Stefano, il mio compagno. Avevamo visto per caso in rete un video di due stagioni prima, di un luogo pazzesco, e avevamo subito detto: vogliamo andare là. Abbiamo iniziato a informarci e man mano abbiamo messo insieme tutti i pezzi del puzzle. Siamo atterrati al campo base in elicottero, eravamo solo noi due con la nostra tenda in un luogo del tutto selvaggio. Lì abbiamo scalato un bellissimo pilastro di roccia, su difficoltà che ci permettevano di arrampicare in libera in modo etico e rispettoso, senza usare troppi mezzi artificiali, in modo relativamente rapido, in stile alpino e senza assistenze di nessun tipo. Essere in autonomia in un posto così selvaggio su roccia così bella è stato incredibile.
In queste spedizioni gli sponsor sono una parte complicata: per loro è importante il ritorno mediatico e questo tipo di alpinismo di nicchia fatto in un posto sconosciuto non ha molta risonanza. Inoltre, stiamo via tanto tempo e perdiamo tante giornate di lavoro…
Come ti approcci alla sostenibilità in spedizione?
Io la vivo in modo molto semplice, ho un comportamento forse non molto radicale. È chiaro che la spedizione ha un impatto economico e ambientale importante a partire dai voli intercontinentali, altrimenti uno dovrebbe stare fra le mura di casa.
Fermo restando questo, a me piace pensare che essendo in luoghi così remoti ci si appoggia molto alle realtà locali, contribuendo alla loro economia. Ad esempio, in Nepal un pastore di yak ci ha accompagnato con tre animali, noi l’abbiamo pagato per questo servizio in modo diretto, tutti i soldi sono finiti nelle sue tasche, al contrario di quello che può succedere con tasse governative e affini nelle spedizioni più grandi. Anche il cibo, a parte i liofilizzati che mangiamo in parete, lo compriamo nei villaggi durante i trekking, si tratta magari del pollo ucciso la sera prima dal proprietario della casa in cui alloggiamo o degli ortaggi coltivati dai locali. Per quanto riguarda i rifiuti, è tassativo che tutto quello che entra nel campo base esce con noi. Così come ce lo siamo caricati all’andata ce lo carichiamo al ritorno, per di più i rifiuti pesano meno del cibo.
Questa sulla sostenibilità è comunque una riflessione interessante: è vero che viaggiamo all’altro lato del mondo per fare alpinismo nella natura, che più è selvaggia e più ci piace, ma per farlo ci appoggiamo a voli lunghissimi quando potremmo scoprire i luoghi vicino a casa. Ma ogni cosa ha il suo tempo, io ora ho voglia di viaggiare e vedere il mondo, magari in altri momenti mi fa piacere stare a casa e riposare e chissà che nel futuro non mi verrà voglia di fermarmi un po’.
La spedizione sul K2 è tutta al femminile, come vivi questa cosa? Pensi che sia necessario costruire una cordata di sole donne e cosa pensi che questo possa dimostrare?
Secondo me non è necessario avere una cordata al femminile, ma dà alla spedizione un significato diverso. Il fatto che ci siano donne in una cordata mista è di minor peso, quello che sto vedendo in questi anni è che essendo noi donne una minoranza c’è la tendenza a rivendicare la femminilità in montagna in modo esclusivo per darci più visibilità. Il mio augurio è che questa cosa non serva, e che noi donne non sentiamo questo bisogno di farci notare. Mi fa piacere però far parte di questa cordata al femminile soprattutto perché coinvolge alpiniste pakistane, che fanno parte di una cultura in cui la donna è molto meno emancipata rispetto che da noi.
Dal punto di vista strettamente personale il fatto di essere tra sole donne non mi fa un grande effetto, per me sarebbe stato lo stesso con una cordata mista.
Mi fa piacere però far parte di questa cordata al femminile soprattutto perché coinvolge alpiniste pakistane, che fanno parte di una cultura in cui la donna è molto meno emancipata rispetto che da noi.
Silva Loreggian
Hai notato se ti comporti in modo diverso se sei in cordata con un’altra donna o con un uomo?
Sinceramente no. Io di solito mi lego con persone con cui so già che mi trovo bene, difficilmente con chi non conosco. Questo può invece succedere in falesia o in attività meno impegnative. In quel caso lì noto delle differenze, penso che tra donne ci sia un po’ meno il reciproco bisogno di farsi valere. L’uomo in presenza di donne si mette in mostra e la donna si sente in dovere di impegnarsi di più per far vedere che vale, mentre tra sole donne si va un po’ di più ognuna per la sua strada, condividendo il proprio tempo in modo più leggero. Comunque, quando si arriva alla formazione della cordata queste cose sono superate.
Sul lavoro, anche nelle circostanze in cui la Guida è assegnata in modo casuale e i clienti non sanno che si troveranno di fronte una donna, può esserci un minimo di diffidenza iniziale, ma poi da subito si percepisce che si affidano, hanno bisogno di mettersi nelle mie mani e non mi è mai capitato di sentire messa in discussione la mia preparazione.
Quale è la sensazione che ricerchi di più in montagna?
L’aspetto che preferisco in montagna è immergermi in un ambiente selvaggio, praticando un’attività che mi dà soddisfazione. Non mi piace la contemplazione passiva ma l’essere dentro all’ambiente, viverlo in modo dinamico. Così come dell’arrampicata mi piace l’estetica del movimento, non si tratta solo raggiungere la cima. Per quanto riguarda lo sci non ho così tanta passione per il gesto tecnico, ma è un’attività che permette di vivere la montagna in modo profondo ed esclusivo, lontano dalla gente, dalla società e da tutte quelle cose che ci costringono la testa.
Il fatto di avere un compagno che condivide la tua stessa vita, è sempre bello o a volte vorresti uscire un po’ da questa dimensione di montagna?
A me piace sempre, con Stefano non parliamo solo di montagna ma è veramente semplice condividere tempo ed emozioni, penso di preferire di gran lunga questo al dover incrociare impegni e desideri diversi. Quella al K2 per me è la prima spedizione senza di lui, all’inizio io ero un po’ titubante, soprattutto perché sapevo che se avessi accettato nei mesi precedenti avremmo avuto percorsi di allenamento diversi e questo ci avrebbe portato a trascorrere del tempo lontani, e anche per il fatto di vivere un’esperienza così forte separati. Ma lui mi ha subito spronato ad accettare, ed eccoci qui! Ho ancora qualche preoccupazione, ad esempio riguardo al fatto di non essere mai stata a quote così alte e a temperature così basse e anche perché si tratta di un tipo di alpinismo a cui non sono abituata, con lunghissime ed estenuanti camminate su pendii a 40-45° che danno un po’ l’idea del gusto della sofferenza. Ma sono molto curiosa di vedere come andrà!
Hai già qualche progetto al ritorno dal K2?
Si, per l’autunno avrei il progetto di scalare El Capitan in libera, dato che l’ho già fatto utilizzando anche l’artificiale. Questo obiettivo potrebbe però estendersi alla primavera, dato che arriverò a Yosemite dopo i due mesi estivi quasi a digiuno dall’arrampicata e non so quanto sarò in forma.