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Intervista Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia

di - 21/04/2015

Proponiamo un’intervista a Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, apparsa qualche tempo fa su 4skiers magazine, per tutti quelli che se l’erano persa

Ho letto un libro di Yvon Chouinard circa un anno fa, incuriosito dalla visione di un bellissimo film che in sostanza racconta alcuni aspetti della sua vita. Ho trovato il libro molto interessante, e sorprendente, e appassionanti le idee di chi lo ha scritto. Appassionanti perché ruotano attorno ad un tema che dovrebbe essere caro ad ognuno di noi: la nostra sopravvivenza, e più precisamente la sopravvivenza del pianeta e delle forme di vita che lo abitano.

 

Da amante dell’outdoor ho ritrovato la stessa passione, determinazione e la stessa radicalità di pensiero di un personaggio oggettivamente notevole che non ho avuto la fortuna di conoscere, Walter Bonatti; non azzardo ulteriori paragoni fra queste due persone, probabilmente diverse, che conosco solo tramite le pagine dei libri che hanno scritto, ma mi domando se il fatto che siano o siano stati entrambi alpinisti sia solo un caso. Forse il fatto che il valore assoluto di un certo tipo di alpinismo sta nell’impossibilità di barare con se stessi e con gli altri e chi ama questa disciplina è portato a traslare tale etica nella vita di tutti i giorni, o forse più banalmente l’amore per la vita all’aria aperta rende più sensibili a determinate tematiche… forse.

Forse parte di ciò che ho letto in questo libro è propaganda, in fondo Yvon Chouinard non è né un filosofo né il fondatore di una ONG, è un imprenditore e ha fondato Patagonia. Voglio tuttavia pensare che una buona parte di ciò che racconta e di ciò in cui dice di credere sia vero, e se anche solo una piccola parte lo fosse penso sarebbe da ammirarne il pensiero e le azioni. Per questo motivo ho deciso di porgli qualche domanda direttamente, ripercorrendo ciò che ho letto. Vorrei andassimo al di là del fatto che rappresenti un’azienda, ma anzi partendo proprio da questo presupposto vorrei porre la questione se un’etica e il business siano obiettivi contemporaneamente perseguibili e se senza diventare degli “asceti nella grotta” sia possibile limitare la propria impronta sul pianeta.

Non siamo soliti intervistare AD, CEO o Marketing Manager, 4SkierS è una rivista di freeski, di conseguenza intervistiamo atleti, ma viviamo in questo mondo e non siamo del tutto ciechi, perciò crediamo valga la pena ogni tanto fermarsi un attimo e riflettere su come ogni cosa che possediamo o creiamo o utilizziamo possa influire negativamente sulla natura e sulla vita di tutti noi e, anche se ha meno importanza, sulla nostra passione per lo sci e l’outdoor.

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Ciao Yvon, ci racconti brevemente le tue origini e come mai un giorno ti appassionasti all’alpinismo?

Iniziai a fare alpinismo perché ero un falconiere; volevo scendere in doppia fino ai loro nidi sui dirupi vicino a casa mia. Mi divertivo a farlo, così iniziai a far pratica sulle colline sabbiose di Stony Point in California. Non avevo mai pensato di SCALARE i dirupi, finché un giorno non incontrammo un uomo del Sierra Club che lo faceva. Gli chiedemmo dei consigli e in tal modo nacque il mio amore per le scalate. In breve tempo, iniziai a scalare piccole rupi in California, poi in Wyoming… poi nel parco di Yosemite.

Il fatto di arrampicare ti diede l’input per cominciare a produrre attrezzatura alpinistica. Come nacque esattamente quest’idea e fino a che punto si sviluppò?

L’equipaggiamento che impiegavo a Yosemite durante i tardi anni ’50 non era robusto quanto avrei voluto. Così, nel ’57, andai da un rottamaio e acquistai una vecchia forgia a carbone, un’incudine da 138 libbre, pinze, martelli e imparai da me il mestiere di fabbro, con l’obiettivo di costruire i miei chiodi da roccia e il mio equipaggiamento da scalata. Il mio primo chiodo da roccia l’ho costruito utilizzando un acciaio al cromo-molibdeno, più durevole di quelli allora sul mercato. Erano più robusti e saldi.

Li feci per me e per i miei amici; poi amici di amici decisero di volerli e iniziai a venderli per 1,5 dollari ciascuno. Subito dopo decisi di volermi costruire un moschettone più resistente, perciò presi in prestito 825 dollari e 35 centesimi dai miei genitori, e comprai uno stampo. Avevo 18 anni. Nel corso degli anni successivi forgiai e vendetti materiale per l’alpinismo durante l’inverno, per poter passare l’estate a scalare. Questo fu l’inizio di Chouinard Equipment (che in seguito, cambiando proprietà divenne Black Diamond Equipment n.d.r.).

Alla fine degli anni ‘50 cominciasti la tua carriera imprenditoriale come artigiano, poi nel ‘74 ti venne in mente che non bastava produrre “hardware”, volevi produrre anche capi d’abbigliamento, cosa influenzò questa decisione e dove ti ha portato?

Per uno scalatore, ciò che si indossa è importante quasi quanto l’equipaggiamento. I tuoi vestiti devono durare. Nei tardi anni ‘60 comprai del tessuto robusto da un telaio in Inghilterra, pensando fosse adattissimo per scalare. Mi ci feci fare dei pantaloni e dei pantaloncini. Vendettero bene fra i miei amici scalatori, così ne feci fare altri. Questo fu l’inizio della nostra attività nel settore dell’abbigliamento.

 

“OGNI TENTATIVO DI RAGGIUNGERE LA SOSTENIBILITA’ SU QUESTO PIANETA, CON NOI CHE SIAMO OLTRE SEI MILIARDI, E’ DESTINATO A FALLIRE. MA PIUTTOSTO CHE SBATTERE LA PORTA, SEPPELLIRE LA MACCHINA E DIVENTARE EREMITI, POSSIAMO LAVORARE PER LA SOSTENIBILITA’ RICONOSCENDO CHE ESSA E’ UNA META CHE SI ALLONTANA COSTANTEMENTE.”

Come e quando è nata la consapevolezza che gli uomini e le attività che svolgono hanno un impatto sull’ambiente e ciò si riflette di nuovo sugli uomini e gli animali? E’ stata l’attività di produttore a fartene rendere conto, oppure il viaggiare e il maturare come uomo?

Durante i miei viaggi iniziai a vedere che i posti che amavo stavano cambiando nel corso del tempo. I ghiacciai si scioglievano, i panorami cambiavano. Stavo vedendo di persona gli effetti che l’uomo ha sull’ambiente; capii di dover fare qualcosa a riguardo.

Il tuo metterti in affari è stato originato dal soddisfare l’esigenza di avere dell’attrezzatura migliore per arrampicare, poi, immagino, disporre di soldi per viaggiare e mantenere te e la tua famiglia; nel tempo l’attività di produzione e vendita è diventata un’azienda a tutti gli effetti, con un fatturato in crescita, numerosi dipendenti, fornitori, distributori, responsabilità e conti da far tornare.

Quando ti sei reso conto della trasformazione che era accaduta come hai reagito, era ciò che volevi? Sarebbero cambiati gli obiettivi e come nel caso?

Fu fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 che mi accorsi di essere diventato un uomo d’affari, e che probabilmente lo sarei rimasto per molto tempo. Decisi che se volevo sopravvivere come uomo d’affari, dovevo diventare una persona seria. Però sapevo anche che non volevo farlo “nel modo normale”, non volevo seguire le normali regole degli affari. Decisi di piegare le regole, e implementare un sistema di gestione aziendale creativo e soddisfacente per me.

Il mio obiettivo divenne creare una compagnia in cui la gente sarebbe stata eccitata nel venire a lavorare, dove fossi circondato da amici, dove la gente aveva consegne flessibili e potesse fare surf quando c’erano le onde, o fare alpinismo quando il tempo era bello. Decisi allora di creare una compagnia in cui le linee di distinzione fra lavoro e gioco fossero sottili.

Nel 1991 la crisi economica impattò duramente anche nei confronti della vostra impresa e ciò determinò un cambio di rotta nella vostra gestione degli affari. Hai dichiarato che crescevate ad un ritmo incontrollato, come l’economia globale.

La nuova crisi internazionale ha messo ancora più in evidenza come il modello economico basato su risorse limitate e consumi crescenti in modo esponenziale sia assolutamente insostenibile. Come vivi personalmente e a livello di azienda questa nuova crisi?

Credeteci o meno, noi chiediamo ai nostri clienti di NON comprare i nostri prodotti se non ne hanno bisogno. L’anno scorso, abbiamo pagato un’intera pagina sul New York Times per dire “Non comprate questo giubbotto”. Durante questo periodo di crisi, chiediamo ai clienti di essere più furbi riguardo ai loro acquisti. Di considerare l’effettivo bisogno di un prodotto prima di comprarlo.

 

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Qual è la sua impronta ambientale? Ne vale la pena?

Penso che i nostri clienti apprezzino questo dialogo. Non abbiamo perso business a causa di questa campagna, anzi ritengo che ciò abbia reso i clienti più leali nei confronti del nostro marchio. Tutti noi dobbiamo iniziare ad essere compratori più furbi, e penso che la crisi economica abbia ricordato a tutti che ADESSO è ora di cambiare abitudini e filosofie di acquisto.

 

“LA MAGGIOR PARTE DEI DANNI CHE CAUSIAMO AL PIANETA E’ IL RISULTATO DELLA NOSTRA IGNORANZA. DI FATTO ANDIAMO AVANTI ALLA CIECA CAUSANDO DANNI SUPERFLUI PERCHE’ NON SIAMO CURIOSI. PER INDIVIDUARE I PROBLEMI E TROVARE DELLE SOLUZIONI E’ NECESSARIO PORSI MOLTE DOMANDE. E SONO GIUNTO ALLA CONCLUSIONE CHE PORSI SOLO UNA O DUE DOMANDE NON SIA SUFFICIENTE: SPESSO PORTA A UN FALSO SENSO DI SICUREZZA.

Patagonia pur essendo un’azienda privata, senza le pressioni degli azionisti, mira a ricavare un profitto, come riuscite a conciliare il raggiungimento di obiettivi di crescita con obiettivi di limitazione dell’impatto ambientale?

Ho mantenuto Patagonia una azienda privata, così da poter prendere decisioni che una compagnia pubblica non sarebbe in grado di prendere relativamente a margini di profitto e impatto ambientale. Non devo tener conto di azionisti il cui unico scopo è massimizzare i profitti. In Patagonia, la nostra impronta ambientale è parte fondamentale della contabilità.

Negli anni in Patagonia dopo aver scoperto che un processo produttivo o una materia prima erano dannosi o migliorabili siete tornati sui vostri passi modificando il processo o cambiando fornitore o eliminando prodotti anche di successo.

Quali principali innovazioni (materiali/processo produttivo) avete introdotto per ridurre l’impatto sull’ambiente? Dover rivedere cosa o come produrre ha giovato o danneggiato l’azienda in termini economici?

Mi piace affermare che ogni volta che ho preso una decisione per il pianeta, ho guadagnato dei soldi. Le decisioni che prendiamo come compagnia nel senso di muoverci verso una filiera, un impianto produttivo più sostenibile, più conscio dell’ambiente, in ultima istanza sono ottime anche dal punto di vista del business.

Tra le iniziative che supportano la salvaguardia dell’ambiente hai fondato nel 2001, con Craig Mathews, 1% for the Planet, un associazione di imprese impegnate a donare almeno l’1% delle vendite a favore di azioni concrete per proteggere e risanare l’ambiente naturale; voi per la verità donate il 2%, ha avuto successo quest’iniziativa?

Il vostro esempio come attivisti per la tutela dell’ambiente, sia attraverso le donazioni sia attraverso un tipo di produzione più responsabile ha dato seguito ad imitazione da parte di altre aziende?

Ci sono più di 1800 aziende nel programma “One Percent For the Planet”. Più di 1800 aziende nel pianeta che vedono il valore di dare l’1% delle loro vendite ad organizzazioni ambientaliste. Credo che questo sia un progresso.

 

“DO UNA DEFINIZIONE DI MALE DIVERSA DA QUELLA DI MOLTE PERSONE. IL MALE NON DEV’ESSERE NECESSARIAMENTE UN ATTO DOLOSO: PUO’ ESSERE SEMPLICEMENTE L’ASSENZA DI BENE. SE HAI LA CAPACITA’, LE RISORSE E LE OPPORTUNITA’ DI FARE BENE E NO LO FAI, QUESTO PUO’ ESSERE MALE.

In “Let My People Go Surfing”, dichiaravi di essere pessimista circa il futuro, citando le tue parole “Non credo veramente che gli essere umani siano cattivi… E’ solo che non siamo molto intelligenti come animali. Nessun animale è così stupido da danneggiare il proprio nido eccetto l’uomo. E non siamo abbastanza in gamba da prevedere le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni quotidiane”… “ Il problema è la mancanza di immaginazione”.

Vorrei aggiungere che sembra che le persone non vogliano nemmeno conoscere o verificare i rischi per la salute cui vanno continuamente incontro, paradossalmente sembra che la paura di rinunciare a un’abitudine o a un bene di consumo superi la paura della morte. Ne sono un esempio gli allarmi poco ascoltati circa il potenziale pericolo delle colture OGM, dell’aspartame nei cibi dietetici, dell’esposizione sempre più alta alle onde elettromagnetiche, etc..

Come giudichi il comportamento dell’uomo, siamo più paurosi, irrazionali, opportunisti, poco intelligenti… ?

Sono molto pessimista relativamente al futuro del pianeta. Ma cerco di utilizzare Patagonia come parte della soluzione, e non come parte del problema. Credo che questa generazione di giovani sia più furba di noi. Fanno le giuste domande, e “votano con il portafoglio”, vogliono insomma dare supporto a compagnie che abbiano uno scopo e si comportino con responsabilità. Questo mi rende speranzoso.

 

“UN MAESTRO ZEN DIREBBE CHE SE VUOI CAMBIARE IL GOVERNO, DEVI PUNTARE A CAMBIARE LE MULTINAZIONALI E SE VUOI CAMBIARE LE MULTINAZIONALI DEVI PRIMA CAMBIARE I CONSUMATORI. EHI, ASPETTA UN MOMENTO! IL CONSUMATORE? SONO IO. INTENDI DIRE CHE SONO QUELLO CHE DEVE CAMBIARE?”

Sono passati un po’ di anni da che hai scritto quel libro, avete “chiuso il cerchio” in Patagonia? Come può porsi ognuno di noi nei confronti della quotidianità per invertire o almeno attenuare il processo di degrado dell’ecosistema?

Non riusciremo mai a “chiudere il cerchio” con Patagonia. Semplicemente essendo in attività, stiamo producendo inquinamento. Ma viviamo seguendo la nostra mission, che è “creare i migliori prodotti, non causare danni non strettamente necessari e ispirare e adottare soluzioni alla crisi ambientale”. Al giorno d’oggi, ritengo che Patagonia stia influenzando altre compagnie, anche solo illustrando che sia possibile essere responsabili e avere un profitto, tutto allo stesso tempo.

Traduzione: Davide Colombo – Foto: Courtesy Patagonia

Diplomato in Arti Grafiche, Laureato in Architettura con specializzazione in Design al Politecnico di Milano, un Master in Digital Marketing. Giornalista dal 2005 è direttore di 4Actionmedia dal 2015. Grande appassionato di sport e attività Outdoor, ha all'attivo alcune discese di sci ripido (50°) sul Monte Bianco e Monte Rosa, mezze maratone, alcune vie di alpinismo sulle alpi e surf in Indonesia.