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Maria Rivas: l’arrampicata è un viaggio

di - 15/06/2021

maria rivas

Da 4outdoor magazine #2 l’intervista di Elena Casolaro a Maria Rivas, climber messicana sempre in giro in autostop con le scarpette appese allo zaino.

La prima volta che ho visto Maria, in palestra non c’era quasi nessuno. Io ero quella che a stento capiva la lingua e chiedeva informazioni sul blocco più facile della palestra, lei trazionava su un braccio solo e ideava nuove vie.Nata e cresciuta in Messico una trentina di anni fa, Maria Rivas ha lasciato casa dagli anni dell’università e da allora non ha più smesso di girare il mondo in autostop, sempre con le scarpette appese allo zaino. Io l’ho intercettata in uno dei rari momenti in cui era a casa, nei cenotes dello Yucatàn, e mi sono fatta raccontare la sua storia.

 

Ciao Maria, come hai scoperto l’arrampicata?

Già da tempo il mio istinto aveva voglia di salire sopra qualcosa, ma dell’arrampicata non sapevo nulla. Nello Yucatàn, da dove vengo, si arrampica molto poco, quando mi sono trasferita in Germania per l’università ho subito cercato di entrare in questo mondo iscrivendomi a una palestra di bouldering. Ma non era quello che cercavo, io volevo arrampicare all’aperto e tutti lì stavano sempre sulla plastica. In quei primi mesi morivo dalla voglia di scalare, e finalmente due ragazze mi portarono in falesia. In quel weekend ne successero di tutti i colori: il top-rope non era contemplato, mi buttai su un 6c+ da prima e caddi mille volte. A un certo punto feci un volo che mi ricordo ancora, non so bene come successe ma, tra la sicura poco esperta della mia amica e la via chiodata male, feci un pendolo e sbattei fortissimo la schiena contro la roccia. Forse fu l’entusiasmo che non mi fece sentire il dolore, gridai che andava tutto bene e chiusi la via. Un’altra cosa che ricordo di quel giorno è che avevo le scarpette piene di buchi, e i piedi mi sanguinavano per le botte prese contro la roccia. Ma non mi importò di niente, avevo aspettato di arrampicare fuori per troppo tempo e non volevo lasciare che la paura o il dolore mi fermassero.

Capii quel giorno che questa era l’unica cosa che volevo fare, e la mia vita cominciò a girare attorno all’arrampicata.

 

Com’era la tua vita in quel periodo?

Mi bastò un weekend per sapere che nella vita volevo solo scalare, decisi che avrei mollato l’università alla fine del semestre e così fu. Nel frattempo usavo i soldi che mi davano per studiare per andarmene in giro ad arrampicare, poi mi chiusi in casa a studiare per i due mesi prima degli esami.

A quel punto ero sola e al verde, preparai uno zaino, attraversai l’Europa in autostop e me ne andai in Spagna. L’ultimo passaggio me lo diede un tizio, e scoprii che anche lui arrampicava: mi lasciò ad un campeggio e mi chiese se volevo scalare il giorno dopo. Io non dormivo da due giorni, avevo viaggiato per tutto il tempo, ma capii che quella era la mia occasione e non potevo lasciarmela scappare. Il tizio, che era destinato a diventare un mio grande amico, mi presentò a un sacco di gente e nel campeggio ci dormii solo quella prima notte. Nei mesi successivi passavo le giornate ad arrampicare e le notti ospite a casa di qualcuno, sotto le stelle nel mio sacco a pelo o nelle grotte.

Sempre in giro in autostop, a volte sola e a volte con qualcun altro che stava facendo il vagabondo come me. In Francia conobbi il mio ragazzo, aveva appena comprato un furgone: lo attrezzammo in una settimana alla bell’e meglio e passammo un bel po’ di tempo viaggiando, scalando e vivendo lì dentro.

 

Questione spinosa: come fai con i soldi?

Dopo la borsa di studio all’università e un progetto di ricerca in Canada, mi sono più o meno arrangiata: in Germania lavoravo come pizzaiola, e quel lavoro mi è piaciuto così tanto che l’ho fatto di nuovo in Turchia. C’era una specie di campeggio di scalatori laggiù, raccontai che avevo esperienza in cucina e si dà il caso che il pizzaiolo avesse appena dato le dimissioni. Era sempre più o meno così: trovavo un lavoro, riuscivo a risparmiare un sacco avendo pochissime spese, e vivevo di quello nei mesi successivi. I soldi che spendevo erano veramente pochi, mi spostavo sempre in autostop e presi un autobus davvero di rado. Le uniche spese erano il cibo e le cose per scalare: corda, scarpette, magnesite.

Poi nel 2019 sono andata in India a seguire un corso per diventare insegnante di yoga: per adesso non ho dato moltissime lezioni, ma in futuro vorrei vivere di quello.

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Hai fatto molti viaggi per arrampicare: parlami di qualcuno di questi.

Dopo l’avventura in Spagna girai per tutta l’Europa in lungo e in largo, me ne andai in Svizzera, Germania, Francia, salii fino alla Norvegia. Arrampicavo moltissimo in quel periodo, ma decisi di continuare con l’università e andai a fare un progetto di ricerca in Canada. Rimasi lì un anno, e ovviamente non mancò l’occasione di arrampicare.

Dopo qualche mese di nuovo in Germania, partii per andare ad arrampicare in America del Sud: Cile, Argentina e Brasile.

I sudamericani sono davvero aperti, e lo dico rispetto ai miei standard da messicana! I cileni in particolare sono il massimo estremo di accoglienza che abbia mai conosciuto.

L’idea del viaggio nacque un giorno in una falesia in Austria: sentii due ragazzi parlare spagnolo e mi avvicinai. Cominciarono a raccontarmi dell’arrampicata in Argentina e mi prese una voglia incredibile di andarci. Tornando a casa quel giorno comprai il biglietto per il Cile.

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Come ci si prepara per un viaggio del genere?

Contattai questo ragazzo della falesia, era tedesco di origini cilene, però non mi rispondeva: allora cominciai a preoccuparmi. Avevo un volo prenotato e non conoscevo nessuno, non sapevo cosa avrei fatto in quella città da 8 milioni di abitanti! Mi ricordai di un altro amico cileno che non vedevo da anni, e gli mandai un messaggio.

Il mio volo partiva dalla Spagna, quindi approfittai per scalare qualche giorno a Siurana, in Catalogna: per caso (un caso molto fortunato) conobbi un ragazzo cileno, e gli dissi: “tra due giorni vado in Cile e non so davvero che fare laggiù”, lui mi disse che ci avrebbe pensato lui e gli lasciai il mio numero. La notte prima del volo nessuno dei tre mi aveva risposto, la passai praticamente insonne. Ma mi svegliai con tre messaggi: uno mi lasciava il numero di un amico, l’altro mi diceva che sarebbe tornato in Cile due giorni dopo, l’altro ancora che potevo fermarmi a casa sua.

Atterrai in Cile alle 11 di sera, e il giorno dopo stavo già andando ad arrampicare! Non avevo fatto ricerche prima di partire, i progetti si crearono da soli uno dopo l’altro, conoscevo sempre gente nuova che mi invitava ad andare di qua e di là. Le falesie in sud America sono incredibili, molto più selvagge che in Europa, sei sempre disconnesso dal mondo. E poi l’idea di arrampicata che hanno lì è molto più legata alla montagna, forse anche per la vicinanza “ispiratrice” della Patagonia; quasi tutte le persone che ho conosciuto io usano la falesia solo come allenamento per le vie lunghe in ambiente di montagna.

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Sei poi andata in Patagonia?

No, ero sul punto di andare ma alla fine ho deciso che non era il caso: ero sola, viaggiavo con tutte le mie cose, ero inesperta. Lì le distanze sono notevoli e il tempo in Patagonia è terribile.

Rischiavo di arrivare fin laggiù e di non trovare una finestra di bel tempo per arrampicare. Alla fine la cosa più “estrema” che ho fatto sono vie lunghe in stile trad.

 

Hai mantenuto i contatti con le persone che hai conosciuto nei tuoi viaggi?

La cosa più bella dei viaggi, e la cosa per cui sono più grata all’arrampicata, sono tutte le persone che ho conosciuto. Quando viaggi nello stile in cui ho viaggiato io, vivi, in un mese, quello che normalmente vivresti in un anno, si creano legami fortissimi. Non sento spesso le persone, perché non pago per avere internet sul telefono, e nella maggior parte dei posti in cui vado non c’è Wi Fi. Ma ci sono connessioni così forti che stanno lì anche senza sentirsi. Questa è la parte dura del viaggiare; quando incontro qualcuno so che forse non lo rivedrò: magari non tornerò mai in quel posto, magari loro non ci saranno più. É triste, ma preferirò sempre avere l’opportunità di creare legami che non farlo per paura di spezzarli.

Per te è importante il grado in arrampicata?

Beh, all’inizio i gradi non li capivo, non avevo questa barriera mentale, non mi importava nulla del livello. Poi ho iniziato a capire le diverse difficoltà, e senza rendermene conto ho iniziato a dare molto peso ai gradi. Ritenevo molto importante mantenere il grado: una volta arrivata a scalare a un certo livello, mi dicevo : “Non puoi cadere in una via di riscaldamento” o “ Questo devo farlo a vista per forza”. Poi mi accorsi che questa mentalità era uno schifo: non arrampico per stressarmi o per mettermi pressione, arrampico perché mi piace. Arrivare in catena è solo la ciliegina sulla torta.

 

E lo yoga?

Lo yoga mi ha insegnato tantissimo: fin dall’inizio mi sono buttata nell’arrampicata in un modo un po’ poco sano, era l’unica cosa che contava davvero. Scoprii lo yoga in Canada, seguii delle lezioni con un maestro e questo cambiò la mia prospettiva nella vita: mi ha insegnato a rilassarmi, ad ascoltarmi, a stare bene dove sto senza mettermi pressione. Tutte cose che poi ho trasferito all’arrampicata.

C’è qualche via particolarmente importante per te?

Non ho mai dato molta importanza alle vie, spesso me ne dimentico appena dopo averle arrampicate. Ma c’è una via lunga nel Verdon, la mia prima via lunga: ci andai con un mio ex, avevamo pochissima attrezzatura e faceva caldissimo. A un certo punto non vidi una sosta e dovetti arrivare fino a quella sopra: non avevo più rinvii e dopo averne messo uno dovetti tornare indietro a prendere gli altri, fu molto duro di fisico e di testa, non credevo di arrivare in cima, ma alla fine ce la feci.

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Un’altra via che mi ricordo è in Argentina: stavo lavorando a un progetto con un amico, un 8a+ (non so se era davvero 8a+), e volevo che lui arrivasse in catena più di quanto volevo arrivarci io. Il mio amico aveva chiuso la via il giorno prima e se n’era andato, quindi avevo deciso di fare un tentativo all’alba del giorno dopo con un altro ragazzo conosciuto lì. La parete era esposta a sud, avevamo solo un giro a testa prima che arrivasse il sole, e questo tizio mi disse: “Vai pure per prima, va bene se ti fa sicura la mia ragazza?” la via era dura, dovevo saltare alcuni rinvii e la sua ragazza arrampicava da poco: mi feci il segno della croce e sperai che sapesse fare sicura. Fu una via mentale, andavo avanti per inerzia anche se non ce la facevo più, e chiuderla fu incredibile.

 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro, nell’arrampicata e nella vita?

Negli ultimi anni ho trascurato tutto ciò che non era l’arrampicata, adesso vorrei darmi una regolata. Ho bisogno di lavorare di più per avere un minimo di sicurezza, ho voglia di fermarmi in un posto e insegnare yoga, prendere una certificazione come istruttrice di arrampicata. Sono un po’ stanca di muovermi e vorrei avere una base, un posto dove tornare. E poi voglio continuare ad arrampicare, concentrarmi sulle vie lunghe e cominciare a fare arrampicata su ghiaccio, e anche fare più “montagna.

Mi piace provare tutto, ho mille progetti, ma vediamo dove mi porterà la vita!

maria rivas

Livornese di nascita ma montanara d’adozione, studia Geologia e sogna di fare la scrittrice. Adora raccontare storie e qualsiasi tipo di avventura, inoltre non sa stare ferma: è facile trovarla su qualche treno diretto verso le Alpi con uno zaino fuori misura da cui penzolano scarpette o piccozze (a seconda della stagione).