Ciò che mi restò impresso dopo qualche giorno passato nella Yosemite Valley negli USA fu il senso di incontaminazione delle montagne nord americane. Un luogo così turistico eppure chilometri di boschi senza un sentiero tracciato, senza infrastrutture in quota, la possibilità di incontrare animali selvatici, di perdersi.
Mi domandai: sarebbe possibile provare le stesse sensazioni in Italia, dove anche il territorio alpino è così antropizzato, dove la montagna è stata vissuta per secoli, dove i sentieri sono stati tracciati dai pastori, dai contrabbandieri, dai soldati, prima di essere percorsi dai turisti?
La risposta me l’ha data Bormio, a due passi da casa.
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Bormio, strategica da sempre
Situata in posizione strategica per i commerci sin dal medioevo, con i suoi 4.000 abitanti circa, Bormio fu citata già da Plinio il Vecchio nel I Sec. D.C. per le sue benefiche acque termali. Da anni meta di turismo internazionale, il comune più a nord dell’Alta Valtellina, ricco di testimonianze storiche, artistiche e culturali, non può essere certo definito un piccolo paesino isolato fra le montagne.
Può una località così apprezzata anche in inverno, tanto da aver ospitato due Coppe del Mondo di sci alpino e che sarà sede delle prossime Olimpiadi Invernali, ospitare ancora un lato dal fascino selvaggio e incontaminato?
Onestamente ne ero scettico, e l’unico modo per confutare il mio parere era passare un paio di giorni sul posto, immergendomi nella sua natura.
Non ci siamo già visti?
Come i nostri lettori sanno, in passato già avevamo percorso e documentato i più noti e battuti itinerari della Val Viola (4outdoor Magazine #2 – 2024) e il Giro del Confinale (4outdoor Magazine #3 2023), era quindi, a maggior ragione, il momento di scoprire le perle meno note di questa preziosa collana. E da chi farsi accompagnare se non da Giacomo Meneghello, fotografo, abitante e grande conoscitore di queste montagne?
A noi si unisce anche Francesca Compagnoni, nota ciclista e outdoorer bormina, e la mattina concordata mi raggiungono all’Hotel Meublè della Contea.
Un’ultima occhiata al meteo non scioglie la riserva circa le condizioni atmosferiche a cui andremo incontro. “Giacomo, dove ci porti”?
“Cominciamo a salire per la strada del Passo dello Stelvio, lasciamo un’auto nei pressi del Bosco Bocche d’Adda e proseguiamo con l’altra fino alla 3a Casa Cantoniera, lì imboccheremo il sentiero 148… poi staremo a vedere”.
Salendo per i tornanti del Passo dello Stelvio ci si comincia ad immergere in un universo tutto speciale. E’ un po’ un’atmosfera comune a tutti i passi di montagna, percepisci la vicinanza di un confine, la coscienza del luogo in cui ti trovi e l’attesa per quello in cui scenderai oltre il culmine. Qui però è diverso, dapprima è un groviglio di tornanti e piccole gallerie che si fanno strada fra pareti rocciose strapiombanti, poi il panorama si apre sull’altopiano di Scorluzzo, tagliato dal fiume Braulio.
Ogni metro guadagnato uno scenario e un’emozione diversa.
Zaini in spalla, inizia l’hiking
Alla 3 a casa Cantoniera carichiamo gli zaini sulle spalle, l’avventura ha inizio.
Un rapace volteggia sulle nostre teste e attorno a noi il silenzio è interrotto solo dal rumore di qualche auto che passa lungo la strada ancora vicina.
Sarà un gipeto o un’aquila? Giacomo ci spiega che sono due le cose che distinguono i due rapaci: lo stile di volo sostanzialmente planato nel Gipeto e più “muscolare” nell’Aquila ed in secondo luogo la forma della coda a ventaglio nell’Aquila e a forma di spatola nel Gipeto. Comunque a noi basta apprezzare la sua eleganza, mentre vola sfruttando le correnti ascensionali generate dal terreno.
Il nostro fotografo ci fa notare fra quanti fiori stiamo camminando, quali sono belli tanto quanto invasivi, come il rododendro, quali possono avere proprietà officinali o sono commestibili, e che relazioni ci siano fra la geologia di un terreno e la flora che lo abita.
Mi viene da pensare ai vari progetti finanziati dalle agenzie spaziali e dai governi per la ricerca degli eso-pianeti, pur nella vastità dell’universo sarà mai possibile trovarne uno bello come questo pianeta azzurro?
Alle Foppe della Mogenaccia, a circa 2.600 m Giacomo decide di mollare il sentiero battuto, l’obiettivo è incrociare i resti delle trincee della Grande Guerra, prossimi alla cima Radisca. Al cospetto del Monte Braulio viriamo quindi in direzione sud-ovest, ricominciando a macinare dislivello.
Entriamo passo dopo passo in un mondo di roccia, che contrariamente a quanto si possa immaginare non lascia spazio alla noia. Qui la geologia si è sbizzarrita e da un metro all’altro si passa dal calcare alla dolomia con colori che vanno dal grigio cemento al rosso scuro.
Raggiungiamo i 2.800 m di una dorsale del Monte Radisca da cui lo sguardo comincia a spaziare tutto attorno, poi, dopo aver scattato qualche foto percorriamo l’ultimo tratto fino alla cima Radisca: 2.970 m.
Incrociamo nuovamente il sentiero in questi ultimi metri, così come incrociamo i tratti di trincea che hanno fatto da riparo ai nostri soldati, contro gli Austriaci fra il 1915 e il 1918.
Non si può non pensare a quali esperienze abbiano vissuto quei ragazzi, impegnati a difendere il territorio, la nostra patria, fra freddo glaciale, paura e fame.
Io, Francesca e Giacomo siamo lì, ad ammirare l’Ortles e lo Stelvio con le sue piste da sci estivo, da un piccolo buco scavato nella roccia per spiare e difendersi dal nemico. Mangiamo un panino e ci riposiamo, con i pensieri che spaziano fra un presente di serenità e un passato di sofferenze.
Una volta ripartiti decidiamo di tagliare verso la Piana di Pedenoletto senza seguire la traccia per ri-incrociare il sentiero dalla parte opposta di esso.
E’ quasi nel momento in cui lo raggiungiamo che il nostro sguardo viene catturato da un piccolo oggetto conficcato in un avvallamento del pendio. Faccio segno a Giacomo di fermarsi e assieme scendiamo nella buca a guardare.
Quello che il nostro fotografo estrarrà dal terreno si rivelerà essere l’elmetto di un soldato della Prima Guerra Mondiale, quasi completamente intatto.
Il sentiero ora è uno stretto traversone lungo la montagna e quasi a strapiombo sotto di noi ammiriamo con un misto di attrazione e apprensione i tornanti del Passo dello Stelvio.
E’ un mondo di silenzio e natura selvaggia quello che stiamo attraversando, con orizzonti pressoché infiniti, pareti strapiombanti e dura roccia.
Eppure la natura riserva sempre qualche bella sorpresa e per colmare quel senso di vuoto ecco apparire sopra di noi una famiglia di stambecchi, il cui padre, un bell’esemplare dalle corna imponenti ci fissa per capire le nostre intenzioni.
All’altezza della vecchia miniera di ferro di Pedenoletto (ora chiusa da un cancello) la traccia si fa di più difficile interpretazione, ma con cautela seguiamo Giacomo fino ad un piccolo belvedere a 2.550 m circa, da cui ammiriamo Bormio e gli azzurri laghi di Cancano.
I raggi del sole cominciano ad avere un colore più caldo quando imbocchiamo l’ultima parte di sentiero, che con una decisa pendenza e fra i pini mughi e qualche ghiaione ci conduce al bosco di abeti e larici dove abbiamo lasciato una delle auto.
Su un ponticello di legno che attraversa il fiume Adda guardo con il binocolo la Cima Radisca, dove eravamo solo poche ore prima.
Fino dove ci possono portare le nostre gambe e la nostra passione? Cosa ci rende colmi di gioia dopo tanta fatica? Forse è proprio solo questo desiderio innato di riconnetterci con la natura e con il lato selvaggio che una vita addomesticata ci ha fatto dimenticare.