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Dino Bonelli: viaggi, corsa e fotografia

di - 28/08/2022

forografia

Il nostro direttore Daniele Milano Pession ha intervistato Dino Bonelli. Di lui avete visto sulle nostre pagine le sue bellissime fotografie. Scopriamo quello che ha da raccontarci sulla sua esperienza corsa e fotografia, ma soprattutto, come piace a lui, di viaggi di corsa e fotografia. 

 

Dino, quando hai iniziato a correre?

Riavvolgiamo la pellicola di 40 anni. A 15 anni, ma già prima, la corsa era parte attiva della preparazione atletica che facevo per lo sci agonistico. Questo sport che attorno ai 18 anni, con il gruppo sportivo dell’Esercito, mi ha portato fino alla Coppa Europa di discesa libera. Ero obbligato a correre e quindi correvo, ma io odiavo farlo. Poi, finito lo sci agonistico e quindi il servizio militare, dopo alcuni mesi di sedentarietà assoluta, ho scoperto che correre non era poi così male. Quindi mi sono fatto affascinare dal triathlon, anche se non sapevo ancora nuotare, e nel 1992, a 25 anni, sono stato uno dei primi italiani a finire un Ironman. Gli anni successivi sono stati occupati da maratone su strada e altri triathlon, altri Ironman e, vivendo in montagna ho iniziato a correre su e giù per i sentieri.

 

fotografia

 

Come corri?

Direi discretamente male. Con una falcata incompleta e bassa che è abbastanza antiestetica, ma qualcuno dice che è una corsa molto economica sotto il punto di vista del dispendio energetico, quindi ottima per le lunghe distanze. So di correre male, perciò quando corro e vedo altri che fanno foto, mi do una svegliata. Per il tratto coperto dal fotografo di turno, alzo le ginocchia e spingo bene con il piede, cercando di apparire, se non proprio “fotograficamente bello”, almeno decoroso. 

 

Cosa vuol dire essere fotograficamente “belli” per la corsa?

La corsa ha fondamentalmente quattro fasi fotografabili, più un’infinità di altre situazioni, che comunque derivano quasi sempre da queste:  

  • la spinta
  • l’apertura della falcata
  • l’appoggio 
  • il recupero della gamba che ha appena spinto. 

In una serie di fotografie a sequenza, un runner forte, che spinge bene, può essere “fotograficamente bello” anche in tutte e quattro le fasi. Poi, man mano che si spinge meno, le possibilità di una foto avvincente diminuiscono. Oltre questo, c’è la personalità del runner, con il suo essere e le sue espressioni naturali. Qui il granitico Marco Olmo è Maestro. Oppure l’estro dell’atleta che per noi fotografi è un valore aggiunto non da poco.

 

Quando hai iniziato a fotografare?

Sempre nel periodo in cui ero nel gruppo sportivo dell’Esercito, grazie a Mauro Paillex, un amico fotografo anch’egli in caserma a Courmayeur. Ho iniziato ad appassionarmi alla tecnica fotografica che poi ho affinato negli anni, sebbene non abbia mai fatto corsi specifici.

 

 

Una delle tue peculiarità è quella di fotografare la maggior parte delle gare partecipando alla competizione stessa, per poi raccontare, con scatti e parole, l’avventura dall’interno. Quando hai iniziato questo particolare lavoro che richiede sempre la perfetta condizione fisica?

 

Una dozzina di anni fa, una rivista mi invitò ad andare a fotografare la 100 km del Sahara, in Tunisia, ma io quella gara a tappe l’avevo già messa nel mirino come runner. Accettai l’invito e provai a correre con una piccola macchina fotografica nella tasca anteriore dello zainetto. Ogni tanto, di solito sulle alture terrose o sulle dune, mi fermavo e scattavo, ottenendo un discreto risultato. Da lì in poi ho corso parecchie altre gare, in tutto il mondo, sia competizioni di un giorno sia a tappe, fotografando sempre dalla pancia del gruppo.

 

A questo punto, caro Dino, la domanda è più che doverosa… Ti senti più un runner o più un fotografo?

Nella vita ho tre grandi amori che sono lo sport, le foto e i viaggi. Ho avuto la grande fortuna di poterli mettere insieme e intraprendere viaggi che fotografo… facendo sport! Quindi, se proprio devo dare una risposta alla tua domanda, ti direi che mi sento un viaggiatore.

 

 

Quali sono gli altri sport che hai fotografato da dentro e quali i posti al mondo che ti hanno colpito di più?

A oggi ho visitato 148 Paesi differenti. Da un centinaio di questi sono uscito con almeno un servizio fotografico attivo, come li chiamo io quando fotografo da dentro. La maggior parte correndo, ma ho anche documentato altre avventure, per esempio ho fatto sci e snowboard estremo, con risalite in elicottero e foto in action, sulle ripidissime montagne dell’Alaska. In bici, tra le altre, ho corso anche la mitica Parigi-Roubaix, quella per amatori, scattando foto direttamente dalla sella oppure scendendo di volta in volta nei pressi dei tratti di pavé più ostici. Ho scalato i 7.134 metri del Peak Lenin, in Kirghizistan, e anche in quest’occasione ho documentato tutto con una piccola Canon in tasca.

Per quanto riguarda i posti che mi hanno colpito di più, ci vorrebbe tutta la rivista per elencarli. Mi limito a dirne uno, che ho sentito particolarmente spirituale: l’Isola di Pasqua, che ho corso in lungo e in largo con l’amico ultrarunner Michele Graglia.

 

 

Poi sei stato il primo fotografo professionista al mondo a esser stato accreditato come tale al via della massacrante Marathon des Sables, in Marocco.

Sì, in occasione dei 30 anni di questa gara monumento di 265 km, suddivisi in 5 tappe e da correre in completa autosufficienza alimentare. Avevo deciso di affrontarla anch’io con alcuni amici, tra cui il grande Marco Olmo. Feci la solita richiesta d’accredito come fotografo. I

francesi, un po’ spiazzati dalla mia richiesta, mi risposero che non era possibile. Dietro mia insistenza, mi dissero che nessuno lo aveva mai fatto perché è una gara molto dura, e nessuno ha voglia di portarsi dietro una macchina fotografica e fare foto professionali. Aggiunsero che l’accredito lo danno solo a chi poi garantisce delle uscite su giornali nazionali, e che per quelli ci vogliono super foto, cosa impossibile da fare se si è fisicamente massacrati dalla gara.

La mia insistenza li convinse a fare uno strappo alle regole così, dopo avermi fatto firmare un “contrattino” per almeno 2 servizi su giornali nazionali, mi diedero l’accredito. Fu un’esperienza dura ma bellissima. In un paio di tappe corsi anche un po’ al ritmo di Marco Olmo, per immortalarlo nella sua immensa forza senza tempo, e ci scapparono pure dei selfie in azione insieme.

 

 

Riuscisti a fare le due pubblicazioni richieste?

La sfida dei francesi fu molto stimolante! Feci tantissime foto, di buona qualità. Le corredai con articoli descrittivi in cui la sofferenza vissuta in prima persona aveva la priorità sulle solite storie raccontate da fuori. Pubblicai addirittura 11 articoli su 8 testate nazionali differenti e presi pure una cover con un selfie in cui, sulla mia faccia smunta, si vedeva tutta la sofferenza di una gara come la Marathon des Sables.

 

 

Relativamente alle gare di corsa, quella fu la sofferenza più estrema?

Ogni sofferenza, nel momento in cui la vivi, pensi sempre che sia la più estrema. Alcuni anni fa, alla 100 km del Caribe, nella Repubblica Dominicana, in una tappa di 44 km di una giornata con un sole cocente, dopo aver corso quasi sempre con Katia Figini per poterla immortalare, presi una crisi da disidratazione. Dopo il guado mi attardai per fare alcune foto e restai solo. Disidratato e stordito da un colpo di sole, conclusi i 6 km di spiaggia rimanenti in un lunghissimo calvario.

 

 

Eterni furono anche gli ultimi 40 km della Penang Eco 100, in Malesia. Un forest trail questo, di 105 km, tutto da correre in una foresta fittissima ricca di ripidi saliscendi fangosi, dove a volte bisognava farsi strada tra le liane levandole con le mani, e con un’umidità, sia il giorno sia la notte, del 90%. Lì fu una crisi mista: a quella muscolare di disidratazione, dovuta a una sudorazione fuori dal normale, s’aggiunse una crisi di stomaco e quindi quella mentale.

Di alcuni tratti di questa gara non ricordo nulla e, riguardando le foto fatte, specie nella seconda parte dell’arduo percorso, la maggior parte sono mosse o sfuocate, o addirittura senza nessun oggetto volontario, tipo un runner, all’interno dell’inquadratura. Comunque, in qualche modo portai al termine anche quella fatica, da cui produssi 4 differenti articoli. Anche in questo caso, alle foto fu importante abbinare un testo descrittivo che facesse ben comprendere le difficoltà della competizione.

 

Un altro aneddoto particolare vissuto e quindi fotografato dentro la gara di corsa?

In una frazione di una gara a tappe in Zambia, a una ventina di chilometri dal via, appena prima di attraversare una strada asfaltata, fummo fermati da un’elefante femmina, con il cucciolo al seguito, imbizzarrita nel vedere le macchine in transito e quindi nel non poter proseguire. Percepiva il pericolo per il proprio cucciolo e, agitatissima, si muoveva irrequieta, sbatteva le orecchie, alzava la proboscide e barriva. In quel momento con noi c’erano altri 2 runner, e il pachiderma era a una cinquantina di metri.

Risolto questo primo problema, con l’elefantessa e il cucciolo che indietreggiano nella foresta, dopo pochi chilometri ne viviamo un secondo. Un altro pachiderma, questa volta un giovane maschio di grosse dimensioni, intento a mangiare su un albero di fianco al nostro sentiero, con sbruffi minacciosi ci impediva nuovamente di continuare la nostra gara. Questi ovviamente, insieme a un paio di foto, furono i temi portanti degli articoli descrittivi di quella prova. Articoli piaciuti forse proprio per quegli imprevisti che, in fondo in fondo, uno che va a fare una competizione nella savana africana, spera di vivere.

 

 

Poi hai corso anche in maniera più soft, fotografando attori e cantanti dediti al running.

Sì, ogni tanto mi è capitato. Con Giovanni del trio comico Aldo Giovanni e Giacomo, per esempio, ho corso diverse gare in diversi Paesi, come la Run Iceland in Islanda, la Lakes Trail in Etiopia, o la Run for Pititinga in Brasile. L’ultima che abbiamo fatto insieme, nel sud dell’Algeria, è stata una 42 km che lui non aveva nelle gambe e che io l’ho convinto ad affrontare. Dal trentesimo in poi, con le gambe a pezzi, mi ha sbraitato dietro di tutto, ma gli amici servono anche a questo, a motivare! In Islanda e in Brasile siamo riusciti a far correre anche il suo socio Aldo, e un paio di tappe le ho fatte con lui che ogni tanto, agitando le mani, diceva: “Miii, chefffatica”. Alla Lampedusa Curri, invece, nelle 3 tappe da 10-12 km intorno alla bella isola siciliana, mi sono alternato tra Gianni Morandi, buon runner, e Claudio Baglioni.

 

 

E il rapper Snoop Dogg?

Questa è un’altra storia. Ero nella casa di un amico a Malibu sapevo che nei paraggi c’era Snoop Dogg a girare un video musicale. Nel pomeriggio sono uscito a correre scendendo fino al lungomare per poi ritornare in collina da una strada che passava proprio dove c’erano le riprese. Nel prato tra la casa del mio amico e un’altra villa incrocio Snoop ed educatamente lo saluto. Lui mi riconosce nel runner che evidentemente aveva visto prima, mi borbotta qualcosa, legato al running, che non capisco, quindi gli dico di parlare più lentamente, che sono italiano. Allora lui allarga le braccia e dice: “Italiano… mamma mia… bellissimo… sing something together (cantiamo qualcosa insieme)”. Mi abbraccia, tira fuori una voce incredibilmente armoniosa e intona una canzone conosciuta a cui io partecipo solo con il ritornello “… that’s amore…”. Diciamo un incontro un po’ diverso dagli altri.

 

 

Ma torniamo al running vissuto. Per riuscire a stare al passo – è proprio il caso di dirlo – con quello che fai, come ti alleni e come ti alimenti?

Lo sport, come detto, è parte integrante della mia vita, quindi o corro, o pedalo, o scio, o vado in palestra, ma fermo ci sto veramente poco. Nello specifico della corsa, d’inverno mi obbligo a fare almeno un’uscita alla settimana, e quasi sempre su neve, dove l’allenamento di forza e resistenza è massimale. Stessa cosa per la palestra, che frequento una volta ogni 7 giorni, curando soprattutto il core e la parte alta del corpo. Poi, con l’arrivo della primavera, aumento le sessioni di corsa a 2-3 alla settimana, stessa cosa per la palestra. Dato che sono un accanito sostenitore del fatto che il riposo è parte importante dell’allenamento, un giorno lo dedico sempre all’assoluto relax.

D’estate poi, con l’invito delle montagne ad andarle a trovare, corro 3-4 giorni alla settimana, 1 giorno o 2 li dedico alla bici gravel, e di palestra ne faccio solo uno. A seconda dei miei obiettivi stagionali, quindi delle gare che voglio correre fotografando dall’interno, scelgo le distanze su cui allenarmi e il ritmo da fare, che però non è mai troppo forsennato. Nelle competizioni, più che alla classifica, io tengo a essere sempre sufficientemente lucido da poter fare buone foto in qualsiasi situazione.

Oltre ad allenarmi con criterio, faccio discretamente attenzione all’alimentazione: per esempio, negli ultimi anni sono scomparse tutte le farine bianche e ho ridotto sali e zuccheri. Poi, in fase d’allenamento, integro con prodotti MTBness la cui copertura è totale, quindi prima, durante e dopo lo sforzo, per prolungato che sia. Nelle gare mi alimento con barrette e gel ma, se i ristori sono fatti bene, non disdegno mai di mangiare le delizie che offrono.

 

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Un’ultima cosa, sappiamo che sei appena tornato dalla Svezia dove hai corso la tua nona Wings for Life. Ci dici qualcosa di questa gara dal format completamente innovativo?

Beh, il fatto che sia andato a correrla in Svezia va a conferma del fatto che amo viaggiare. Questa magnifica gara, fortemente voluta e patrocinata da Red Bull, dove per assurdo è l’ultimo a vincere, è un evento benefico unico e impareggiabile. Il format prevede che si possa correre in tutto il mondo e lo si faccia contemporaneamente, con partenza in simultanea alle ore 13:00 dell’Austria, nazione dove c’è la casa madre Red Bull per l’appunto. Quindi, chi corre negli USA, per esempio, lo farà a notte fonda, mentre in India nel pomeriggio inoltrato. Il concetto è semplice: si parte, si corre e, dopo mezz’ora, parte un’auto, talvolta reale e altre volte virtuale, che a una velocità iniziale di 15 km/h ti insegue per venirti a prendere. 

 

Cosa ti affascina di questa gara?

Se l’evento è nel formato Flagship Run, ovvero fisico c, con una partenza ben delineata, un percorso tracciato e una macchina reale al seguito. Sarà proprio quest’auto, detta Catcher Car, a fermare materialmente la tua corsa attribuendoti il chilometraggio che sei riuscito a fare. Se invece l’evento è nel formato App Run, e lo puoi correre dove vuoi sul percorso che vuoi, a inseguirti è il puntino rosso dell’apposita App che ripercorre la traccia che lasci sullo schermo del telefonino. In tutti i casi, va da sé che chi corre più forte è l’ultimo a essere preso e quindi vince. La Wings for Life, il cui motto è “Corri per chi non può farlo”, è una gara totalmente benefica. Le enormi spese organizzative le paga in toto Red Bull, mentre il 100% del ricavato, che quest’anno con i suoi 161.892 iscritti provenienti da 143 differenti nazioni è di 4,7 milioni di euro, va alla ricerca sulle lesioni spinali. Questo evento dà un po’ di speranza non solo ai 930 atleti presenti con la loro sedia a rotelle, ma anche alle centinaia di migliaia di altre persone che, per varie ragioni, sono rimaste paraplegiche. 

 

Quante volte hai corso la Wings for Life?

Io ho corso tutte le nove edizioni, alcune in Flagship e altre in App, alcune in Italia e altre all’estero, sempre con la mia piccola macchina fotografica appresso. Se già normalmente è bello documentare una gara dall’interno, in quest’occasione è doppiamente gratificante. Il messaggio solidale e la promozione che si può fare, portando a conoscere sempre più questa manifestazione benefica, con conseguente aumento del numero dei partecipanti e relativa raccolta fondi, è una cosa semplicemente meravigliosa.

Di Daniele Milano Pession | foto: Dino Bonelli

Corro quanto basta, pedalo a giorni alterni, parlo troppo. Nelle pause mangio. Instancabile sostenitrice di quanto lo sport ti salvi. Sempre. Le mie giornate iniziano sempre così: un caffè al volo e il suono del GPS che segna l'inizio di un allenamento. Che corra, pedali o alzi della ghisa poco importa: l'importante è ritagliarmi un momento per me che mi faccia affrontare la giornata nel modo migliore.