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Nel cuore della Libia con Dino Bonelli

di - 19/07/2023

LIBIA, una corsa dritta al cuore, grazie alle immagini spettacolari di Dino Bonelli e al racconto coinvolgente di Philippe Leveque

Libia, tra sabbia e rocce colorate

Più di 3.300 km su sabbia e rocce colorate; l’opera inarrestabile della Natura solcata in maniera riservata, quasi inconcepibile per la perenne e costante dinamica di condivisione del presente in cui viviamo. Le articolazioni che si riattivano dopo ore di posizioni forzate tra le dune immacolate del Sahara. Il vento in faccia e l’aria pulita sospinta dal vento. Infiniti paradisi, da godere solcando altrettante terre di mezzo. Una corsa dritta al cuore

Foto: Dino Bonelli | testo: Philippe Leveque

“La frontiera tra la Tunisia e la Libia è una membrana poco porosa, e lo si capisce già decine di chilometri prima di raggiungerla. Posti di blocco armati si susseguono con ritmo incalzante e a ognuno si accompagna il medesimo copione: un militare indaga sul viaggio, la guida fornisce i passaporti, scende dal pulmino e scarabocchia qualcosa su dei fogli, poi si riparte.”

Dehiba… e poi è Libia!

In frontiera, a Dehiba, con grande pazienza affrontiamo i silenzi, gli sguardi e l’indecifrabile rete di movimenti intorno a noi. La lingua araba, in assenza di un traduttore, ci schiaccia ai sedili consci di essere impotenti. Allo stesso tempo, però, ci invita a seguire con lo sguardo quello che con le orecchie non si riesce a cogliere: un rapido e apparente caotico correre di passaporti, mano dopo mano, ci tiene incollati al finestrino, intenti a decifrare l’intricato processo a cui non siamo abituati. Dopo qualche ora e qualche timbro colorato, il pulmino bianco su cui viaggiamo corre di nuovo, questa volta su asfalto libico. Ed è da qui, e con questo benvenuto, che inizia il nostro viaggio.

In viaggio con BHS Travel

A Nalut, dove trascorriamo la prima notte, incontriamo la nostra guida e i drivers che ci accompagneranno per il resto dell’avventura. In totale sono cinque, distribuiti su quattro potenti jeep Toyota. Il nostro gruppo è guidato da Luca, coordinatore del viaggio organizzato dall’agenzia BHS Travel, leader italiano dei viaggi d’avventura, senza la quale sarebbe stato impossibile ottenere i visti per visitare il Paese. La sua composizione è estremamente eterogenea, anche se almeno la metà di noi è accomunata da una grande passione per la corsa. Dino Bonelli, fotografo professionista e runner con alle spalle svariati Ironman, è nel gruppo il punto di tangenza, il coagulante, tra diversi micromondi: quello dello sci, di cui sia io sia lui facciamo parte, perché entrambi maestri di sci, e quello dei viaggi d’avventura, a cui senza dubbio appartiene anche Maurizio Icardi, monregalese che ha già condiviso con Dino il recente viaggio in Siria (documentato su questo giornale, n.d.r.). Poi ci sono Andrea e Tiziana, entrambi romani, lui storico e lei geologa, entrambi preziosi valori aggiunti in questo tipo di viaggio.

1ª tappa – La città vecchia di Ghadames

Studiando il panorama che si allunga dal castello di Nalut, prima tappa del nostro viaggio, favoleggiamo sul desiderio di correre in quel mondo bloccato nel tempo, con resti bellici a fare da guardia al passato, come se fossero dei moniti per chi abita il presente. Rimandiamo solo di qualche ora, perché a Ghadames, importante snodo carovaniero delle popolazioni Tuareg, cogliamo l’occasione per indossare un paio di scarpe da corsa e relativi maglietta e pantaloncino e partire con quel ritmo blando e meditativo che permette a ogni passo di avere il proprio senso. La città vecchia, che attraversiamo dolcemente, sembra ispirata alle strutture delle termiti.

“La freschezza dell’aria, nonostante il sole cocente di mezzogiorno, e il candore del bianco che sembra quasi profumare l’ambiente di bucato ci accompagnano per una sgambata senza meta. Ma, come suol dirsi, è il viaggio quello che conta.”

 

2ª tappa – La depressione di Wadi Bin Duqish

Lasciata l’antica città berbera, iniziamo la discesa verso Al-Wafa, 160 km a Sud di Ghadames. L’indomani, incrociamo il nostro primo paradiso: il Wadi Bin Duqish, una depressione geologica scavata dall’acqua e dal vento che fa sprofondare il terreno per qualche decina di metri prima di riaprirsi completamente nuovo davanti a una maestosa duna di sabbia color pompelmo. Alcuni di noi non possono resistere: chiediamo di fermare le macchine e partiamo di corsa alla scoperta dell’intricato reticolo che si dipana ai nostri piedi, affondando tra finissime sabbie purpuree che lambiscono i fianchi rocciosi.

Da lì in poi, il deserto correrà qualche decina di metri più in basso, e noi con lui, spostandoci progressivamente sulla pista carovaniera che da Nord a Sud costeggia il confine con l’Algeria fino a Ghat, e che attraversa almeno una decina di diversi scenari. Una varietà infinita a cui non ci si riesce comunque ad abituare, e a cui forse nemmeno i militari di stanza nell’avamposto di Tin Haidan, al confine con l’Algeria, che ci ospitano per la notte e che qui ci trascorrono mesi interi, sono avvezzi. Allo stesso modo, non sono soliti vedere turisti, anche perché l’intera zona è interdetta al turismo dai tempi di Gheddafi, precludendo di fatto la possibilità di visitare alcune incredibili formazioni rocciose tra le quali decidiamo di fare uno slalom la mattina successiva.

Tohombaka e Diwana, di deserto in deserto

Le fasi di viaggio in auto sono lunghe, e le nostre brevi corse esplorative non sono che un leggerissimo balsamo per le ginocchia sollecitate dalle sette-otto ore di macchina al giorno. Attraversiamo l’intero deserto del Tohombaka prima di raggiungere un angolo di paradiso che ci offre la possibilità di correre liberamente, al tramonto, solleticati dal vento, su un’immensa duna a cui la carovana si affida per proteggersi dalle brezze notturne. Siamo nel deserto di Diwana, e quella duna, che dal basso sembra insormontabile, la scaliamo in un baleno, a volte affondando, a volte ricevendo una strepitosa risposta da parte della sabbia. Dalla cima, invece, veniamo colpiti dalla sensazione di toccare il cielo: abituati a raggiungere picchi che svettano in mezzo ad altri picchi, rimaniamo attoniti davanti alla linea dell’orizzonte che invece si allunga monotona ai nostri piedi. L’altezza, come sempre, è relativa, e qua ci fa sentire in vetta al mondo.

“Quella stessa sabbia che ci ha offerto sostegno per salire, dall’altro lato della duna, dove il vento svolge un’azione differente, ci fa tornare bambini, e come percorrendo una gara vertical a ritroso ci lanciamo urlando giù per la duna facendo salti e capriole, affondando come se stessimo scendendo con gli sci un pendio vergine dopo una grossa nevicata. Quella notte, il cielo, guardando le tende, avrà sorriso ripensando a quegli alpini un po’ matti.”

 

Magadedt, la cattedrale di pietra

Diwana ci accompagna ancora per metà del giorno seguente e, dopo aver attraversato l’Aramat Tassili, raggiungiamo forse una delle mete più iconiche dell’intero deserto libico: Magadedt. Una cattedrale di pietra si estende per chilometri davanti a noi. Colonne di roccia lavorata dall’acqua, dal vento e dalla furia delle tempeste di sabbia si slanciano verso il cielo, come a sorreggere un tetto invisibile. Di corsa vestiti, ci lanciamo nella solita attività esplorativa, che qui comprende anche qualche piccola arrampicata, mentre le nostre guide preparano il pranzo. Regna un religioso silenzio, a cui pochi, forse nessuno, di noi è più abituato.

Il deserto dell’Acacus, il nostro campo tendato

Pranziamo in una grossa nicchia rocciosa che ci regala ombra e frescura, e ripartiamo. Siamo diretti verso il deserto dell’Acacus, a Sud-Est di Ghat, dove un enorme spiazzo ci aspetta per diventare la base del nostro nuovo campo tendato.

Da copione, intanto che la cena si cuoce, usciamo a sgranchire le gambe per una decina di chilometri mentre il sole corre a nascondersi dietro le alte rocce dell’Acacus. La pace dei sensi.
Ad abbracciare il nuovo giorno, il richiamo del passato. Nelle aree più remote dell’Acacus è possibile rintracciare pitture rupestri che risalgono a più di 14.000 anni fa. Così, al mattino, partiamo alla volta di questi reperti e del Forzhafga Arch, un arco naturale che si apre sopra le dune del deserto per più di trentacinque metri. Siamo costantemente con le scarpe da running ai piedi, perché non sappiamo mai quando è più opportuno fermarci e dedicarci a una breve corsa, che riusciamo infine a fare proprio nei pressi dell’arco, prima di riprendere il viaggio alla ricerca delle incredibili pitture e incisioni rupestri nascoste qua e là tra le rocce. Altra notte in tenda, con la luna piena a illuminare le dune sabbiose che ci circondano invogliandoci a una non programmata e magnifica camminata notturna.

La tempesta di sabbia a Ubari

Dal giorno dopo lasceremo alle nostre spalle il deserto più selvaggio, correndo verso Ubari, cittadina all’estremità inferiore di un gran sabbione dorato che dovremmo cercare di attraversare per visitare i laghi nel pomeriggio. Una tempesta di sabbia, simile a quella che ha colpito la caserma di Tin Haidan qualche notte prima, ci impedisce di muoverci, forzandoci a rimandare il giorno dopo.

“Bisogna saper ascoltare la natura quando ti dice: ‘No, fermati’. Lei conosce i nostri limiti molto meglio di quanto li conosciamo noi.”

Il giorno dopo, però, veniamo ripagati dell’attesa e incrociamo alcuni grossi specchi d’acqua che chissà quante volte hanno permesso ai pellegrini di sopravvivere. Incrociamo la vita, la vita nel deserto. E insieme a lei, purtroppo, un fiume di plastica portata dal vento.

La via verso nord, Oyat, LePtis Magna e Sabratha

Da qui, nei millenni e secoli passati, la via correva verso Nord, verso la costa e gli insediamenti fenici, prima, poi romani, infine ottomani. Oyat, Leptis Magna e Sabratha, che insieme costituivano la Tripolis, da cui prende il nome l’attuale Tripoli, rappresentavano per molti la vita, un anelito che si stratificava nel tempo dopo magari mesi di peregrinazioni nel deserto. Così, anche se in forma ridotta, è per noi, che dopo solo una settimana sentiamo il bisogno di riabbracciare parte di quella modernità e di quell’agio a cui oramai rinunciamo difficilmente: acqua corrente, un materasso confortevole, una connessione a internet.

Il contrabbando di benzina

Per rientrare sul Mediterraneo, 950 km più a Nord, affrontiamo il problema della grave carenza di benzina che impatta la regione del Fezzan, vittima di un sistema di prezzi che incita il contrabbando (un litro di benzina costa circa 3 centesimi di euro e può facilmente essere rivenduto a 10 o 20 volte il suo costo in Algeria e Tunisia), rivolgendoci al mercato nero. Questo è uno dei motivi per cui resta complicato frequentare un Paese come la Libia senza un’affidabile e preparata guida locale.

Tripoli, finalmente un letto…

A Tripoli ritroviamo un letto confortevole e i giorni successivi rimaniamo ipnotizzati dalla bellezza di Leptis Magna e Sabratha. Camminando tra i resti di Leptis è facile ricostruire la struttura della città, che ancora oggi, tuttavia, resta per gran parte sepolta sotto la sabbia. Colpiscono la densità e la maestosità delle opere: dall’Arco di Settimio Severo, alle Terme di Adriano, passando per il Foro e il Ginnasio, dove i giovani correvano e praticavano l’attività fisica.

“Il Teatro, sia di Sabratha sia di Leptis Magna, e l’Anfiteatro di quest’ultima lasciano a bocca aperta, mentre il Tempio di Iside, affacciandosi sul Mediterraneo, ci invita a contemplare quel silenzio rotto solo dal suono del mare e a immaginare come poteva essere la vita, duemila anni fa, circondati da tutta questa elegante bellezza.”

Daniele Milano nasce una buona cinquantina di anni fa in Valle d’Aosta. Cresciuto con la montagna dentro, ha sempre vissuto la propria regione da sportivo. Lo sci alpino è stato lo sport giovanile a cui ha affiancato da adolescente l’atletica leggera. Nei primi anni 90 la passione per lo snowboard lo ha letteralmente travolto, sia come praticante che come giornalista. Coordinatore editoriale della rivista Snowboarder magazine e collaboratore per diverse testate sportive di settore ha poi seguito la direzione editoriale della testata Onboard magazine, affiancando sin dal lontano 2003 la gestione dell’Indianprk snowpark di Breuil- Cervinia. Oggi Daniele è maestro di snowboard e di telemark e dal 2015 segue 4running magazine, di cui è l’attuale direttore editoriale e responsabile per il canale web running. Corre da sempre, prima sul campo di atletica leggera vicino casa e poi tra prati e boschi della Valle d’Aosta. Dal 2005 vive un po’ a Milano con la propria famiglia, mentre in inverno si divide tra la piccola metropoli lombarda e Cervinia. “La corsa è il mio benessere interiore per stare meglio con gli altri”