Il passaggio di consegne tra Red Bull e Discovery per la copertura della World Cup MTB offre lo spunto per un bilancio di quanto avvenuto negli ultimi anni, ma apre anche nuovi scenari, mediatici e non solo.
Quello tra Red Bull e la MTB è un rapporto complicato e complesso, anche se forse la definizione migliore sarebbe quella che usa i contrasti: amore e odio, luci e ombre. O meglio ancora, per molti appassionati, atleti e operatori del settore, è un male necessario.
Sì, perché l’arcinoto marchio austriaco di bevande energetiche ha di fatto sostenuto economicamente, in maniera diretta e indiretta, il mountain biking.
Pecunia non olet
Citando un abusato detto latino, ‘pecunia non olet’. Ma andatelo a dire al difficilmente quantificabile numero di atleti ed eventi che hanno rispettivamente avuto l’opportunità di correre ai massimi livelli e di farsi conoscere e apprezzare a livello globale. Eventi che hanno anche rappresentato il trampolino di lancio per alti atleti e comunque un fertile terreno in cui crescere e maturare. Eventi che hanno avuto una copertura professionale mai vista fino a quel momento. Rendendo ogni tappa di Coppa del Mondo un appuntamento fisso per ogni appassionato che si rispetti.
Ovviamente Red Bull non è una Onlus, non ha fatto tutto questo in modo disinteressato. C’è un interesse economico, sfruttando gli eventi come enorme cassa di risonanza per il proprio business. Una cassa di risonanza perfettamente in linea con la propria strategia commerciale. Ma non solo, perché ha anche consolidato la propria leadership globale nel mondo della comunicazione. Lo streaming della Coppa del Mondo MTB e della Rampage, giusto per citare due eventi di poco conto, era un’esclusiva del ‘toro rosso’. Di libero accesso, ma pur sempre esclusivo.
Arriva la domanda spontanea: perché il passaggio a Discovery dal 2023? Il pensiero è che il gigante statunitense della comunicazione – Eurosport fa parte del gruppo – avesse intenzione di mettere sul piatto molto di più di quanto investito fino a questo momento da Red Bull. E anche il massimo organo mondiale che regola il ciclismo non è certo insensibile al richiamo degli euro. Come dare torto all’UCI? Più soldi entrano e più soldi si possono investire per la crescita dello sport… almeno in teoria. (qui l’annuncio ufficiale)
Questo è un perfetto aggancio per la seconda domanda spontanea: si poteva quindi fare di più?
Si può fare di più…
Il marchio austriaco ha dato molto alla mountain bike, e ha preso molto. Ma come per tutte le cose della vita, dello sport e del business, si poteva – e si può – fare di più. È sotto l’occhio di tutti, e non potrebbe essere altrimenti: gli atleti Red Bull hanno goduto di una copertura migliore, sotto ogni punto di vista, per qualità ma soprattutto per quantità. Eh sì, un attore ‘super partes’ sarebbe garante della tanto attesa – da molti, se non da tutti – equità nel trattare i contenuti. Ma ciò non toglie che i protagonisti di XC e DH devono tanto al colosso austriaco se sono conosciuti in tutto il mondo, ispirando i biker a vivere la propria passione.
Lo sguardo e la mente più attenti avranno notato altri aspetti. In particolare chi lavora nel mondo della comunicazione e delle immagini, fisse e in movimento. Non sempre il pacchetto video – quello che si vede e si ascolta – è all’altezza, per varietà delle riprese e profondità di analisi delle gare, soprattutto per le dirette localizzate. E per la telecronaca in inglese, l’essere sempre sopra le righe di Rob Warner è divisivo.
Chi invece corre e è nell’orbita dei team e degli organizzatori, si sarà soffermato su altri aspetti importantissimi. La sicurezza degli atleti, spesso messa in secondo piano dall’esigenza dello spettacolo – di un certo spettacolo, aggiungo – anche e soprattutto se rapportata ai compensi e ai premi. Mi ricordo ancora di un’intervista a un noto freerider canadese della prima ora – uno dei “padrini” del movimento – di parecchi anni fa, che rimarcava come un normalissimo stuntman dell’industria cinematografica a stelle e strisce godesse di una proporzione più “sana” tra fattore di rischio e assicurazione/guadagni.
…ma si è fatto tanto e bene
I 10 anni di era Red Bull lasciano comunque una pesante eredità, non così pesante così come quella dell’era precedente di Freecaster. Un’eredità non semplice da raccogliere, soprattutto da parte di chi – esclusa l’offerta di tutt’altro livello e spessore di Play Sports Network sempre nel gruppo Discovery – non ha esperienza con il broadcasting di contenuti racing nel mondo mountain bike. Mezzi e capacità non mancano, il lavoro fatto con GCN Race Pass focalizzato per lo più sul ciclismo su strada parla chiaro, così come gli ambiziosi piani.
Il livello da cui si parte è davvero alto per la produzione di contenuti che, per forza di cose, dovranno vivere anche oltre la diretta dura e pura. Red Bull insegna, con la sua incredibile mole di foto e video storie liberamente accessibili da chi lavora in ambito editoriale sul portale Red Bull Content Pool.
È normale, quando una storia finisce, cadere nello sconforto e vedere il bicchiere mezzo vuoto, farsi conquistare dalle ombre e ignorare la luce. Anche e soprattutto quando quello che si chiude è molto più di una porta e quella che si apre è un portone di un certo spessore.
Arriva il momento della terza domanda spontanea: addio visione gratuita?
Gratis o abbonamento?
La risposta che vale un miliardo di euro. La frammentazione dell’offerta dei servizi streaming è sotto l’occhio di tutti. Chi è appassionati di serie TV fa davvero fatica a stare dietro alle produzioni preferite, dovendo concretamente sottoscrivere ‘n’ abbonamenti con un esborso economico non indifferente. E che fa sembrare più modesto il costo del canone RAI.
Il passaggio dall’era ‘free’ a quella ‘pay’ porta però a degli ipotetici vantaggi. Il modello dei contenuti a pagamento è fondamentale – almeno in teoria, è giusto sottolinearlo – a una maggiore profondità e qualità del servizio proposto. Sinceramente, da vecchio abbonato di Bike Magazine americano e nuovo abbonato dell’erede Beta MTB, sono felicissimo di pagare per quello che mi piace leggere e guardare.
Mi sembra ovvio preferire un modello di fruizione del servizio con abbonamenti dedicati alla MTB: pago per questo e guardo solo questo, un po’ come accade su alcune piattaforme mainstream con la Formula 1. Non mi fa impazzire il pensiero di abbonarmi a un altro pacchetto completo, solo per ottenere qualche ora alla settimana di ciò che mi piace, sovvenzionando un sacco di contenuti che non mi interessano affatto.
Riallacciandomi a quanto scritto prima, si può e si deve fare di più: alzare il livello, sia per la copertura degli eventi ma specialmente per una rappresentazione più equa e inclusiva di questo sport. Può sembrare una contraddizione, un servizio potenzialmente a pagamento e quindi esclusivo che diventa al contrario inclusivo.
A meno che…
A meno che questa mossa non abbia come obiettivo il controllo del mercato. Sono sempre nel ‘mood’ del bicchiere mezzo vuoto, anzi, “del pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”.
Non vorrei che Discovery abbia espresso l’intenzione di acquistare un prodotto – ha espresso l’intenzione, lo ribadisco, se non fosse chiaro – che ha guadagnato terreno con Red Bull (le visualizzazioni si sono decuplicate in pochi anni – nda) per controllare la sua crescita e impedire di togliere quote di mercato al suo prodotto di punta, le corse su strada.
Questo pensiero mi spaventa, mi sembra di tornare indietro di oltre vent’anni quando le corse endurance su strada – il mitico gruppo C! – erano in forte progressione e sembravano rubare spazio e fan alla Formula 1, il “prodotto” principale della FIA, il massimo organo mondiale delle corse automobilistiche. All’epoca preferì far morire il Gruppo C di una morte dolorosa, non rendendosi conto c’era spazio per tutti, che gli appassionati veri seguivano entrambe le discipline.
Ecco, non vorrei che l’UCI, proprio come la FIA responsabile di una disciplina con molte sfaccettature, prediliga lo sport più grande a quello più piccolo… e non stiamo a raccontarcelo, la strada vince a mani basse sull’off-road. Ma è impensabile pensare che un appassionato si metta a guardare gara su strada con una copertura XC e DH scarsa e non all’altezza delle attese. Sarebbe una mossa suicida, di UCI e Discovery.
Dovrebbe essere messo in atto un lavoro a braccetto, una spinta decisiva a un mondo che deve riconquistare il posto che merita nello sport, nel business, e nella comunicazione. Seguendo un progetto a lungo termine.
Guardare lontano
Credo poco che Discovery faccia questa mossa per controllare lo sviluppo delle competizioni MTB, credo ancora meno che voglia fare soldi a breve termine capitalizzando la crescita del mercato mountain bike e la conseguente attenzione dei grandi media negli ultimi due anni. Altro che suicidio, sarebbe un vero disastro, per tutti gli attori coinvolti!
Il pensiero va verso lo sviluppo di un ramo sportivo e dei relativi contenuti multimediali, andando oltre quello fatto da Red Bull che, in fondo, si è sempre preoccupata della mountain bike.
Perché Discovery non dovrebbe espandersi negli sport d’azione? In fondo lavora già con la Coppa del Mondo di sci, e con il “fratello diverso” ciclocross. I mezzi non mancano, e neppure le intenzioni, almeno così sembra.
Un passo indietro
Riavvolgo di poco il nastro dei pensieri, fermandomi al capitolo “approccio neutro”. Pensateci un attimo: senza più vincoli di sponsorizzazione, ne guadagnerebbero tutti, dagli atleti agli spettatori passando per le località ospitanti e per chi lavora nel mondo del racing a ogni livello. Allargando in modo fluido e ampio il bacino d’utenza. E facilitando la vita a chi compete, mettendo in conto un altro pilastro portante del racing: un’equa distribuzione dei diritti tra le federazioni e i team, alzando l’asticella della competizione, per di più livellata. Un livellamento verso l’alto, dove – e qui rubo la frase ai colleghi di Pinkbike – si frantuma il modello fatto di “possono competere (davvero) solo pochi ragazzi ultra-ricchi, mentre tutti gli altri sono corridori part-time e influencer a tempo pieno.” [chapeau, Brian Park!]
Ma andiamo oltre. Un modello realmente virtuoso prevede anche contenuti migliori e accattivanti sia per gli appassionati duri e puri sia per il grande pubblico, riportando la visibilità sui media tradizionali. Questo aspetto è sacrosanto, in fondo chi non vorrebbe un mountain biking trattato alla stregua dello sci alpino e nordico? Cos’ha da invidiare una gara di downhill a una di discesa libera e una di cross country a una di sci di fondo in termini di agonismo e spettacolo?
Più copertura – sempre nel nostro modello realmente virtuoso – significa anche più entrate economiche da reinvestire. Qui, come prima, entro in ballo l’UCI, che deve necessariamente tenere le redini del gioco. Se il gioco vale la candela, nel momento che esce Red Bull come broadcaster ma anche come sponsor, altri marchi saranno ben lieti di entrare e impegnare montagne di euro e dollari. Abbiamo bisogno che questo sport cresca, e può crescere solo con nuovi spettatori e investitori extra settore. Siamo sempre nel campo di ‘pecunia non olet’, ma il marketing – volenti o nolenti – è vitale per tutto quello che è comunicazione, e chi investe ha tutto l’interesse che le competizioni siano viste dal maggior numero di persone possibile. Innestando un circolo virtuoso.
Bicchiere mezzo pieno
Voglio guardare al bicchiere mezzo pieno, farmi scaldare dalla luce abbandonando il freddo delle ombre. Parlando papale papale, voglio dare fiducia – fermo restando il mio scetticismo per come tratta il mondo del ciclismo off-road – a Discovery. La direzione presa sembra quella giusta. Il ritorno all’epoca d’oro della MTB racing, quella della World Cup sponsorizzata Grundig per chi c’era, è un sogno neanche tanto campato in aria. Ma sognare non costa nulla.