Di Stefano Martignoni, Edoardo Margiotta, Eddy Zanenga | foto: @tudorprocycling / @sprintcycling
Coraggio, spirito ribelle, gusto della sfida. Julian Alaphilippe, con la sua audacia e la forte personalità, è uno dei corridori che più hanno definito i contorni del Ciclismo moderno.
Julian, quando si parla di te, mi vengono subito in mente quelle magnifiche immagini mondiali dall’elicottero a Imola, dove sembri volare sopra le colline della Romagna. Ma in Italia hai vinto molto di più: le Strade Bianche, una tappa del Giro, la Milano-Sanremo e un secondo posto al Lombardia. Hai molti tifosi qui: senti questo affetto? Che rapporto hai con il ciclismo italiano?
“Sì, ho sempre amato correre in Italia, non so bene perché. Penso che sia innanzitutto per le corse e i percorsi che propone, ma anche per l’atmosfera, il pubblico, il Paese…
L’Italia, insomma, è un Paese che ho sempre amato: mi piace andarci, correrci, e ho avuto la fortuna di ottenere lì molte delle mie vittorie, quindi per me è sempre speciale tornarci.”
Il ciclismo ti ha dato tanto, ma cosa ti ha tolto? C’è qualcosa che hai sacrificato o che oggi guardi con un velo di malinconia?


“Malinconia? No, per niente, perché parto dal principio che nella vita bisogna sapere cosa si vuole.
Da giovane sapevo solo una cosa: volevo riuscire, arrivare il più lontano possibile, dare il meglio in ciò che avrei fatto. Quando sono entrato nel ciclismo, ho fatto di tutto per riuscirci: mi allenavo duramente, ascoltavo i consigli, dedicavo molto tempo… E, ovviamente, questo tempo era tolto alla famiglia o agli amici, ma non l’ho mai vissuto come un sacrificio, perché amavo quello che facevo. Quindi non guardo indietro con malinconia, ma con orgoglio: ho iniziato dal basso, ho scalato i gradini uno a uno fino al livello più alto, vincendo grandi corse. Il ciclismo mi ha dato tanto, è vero, ma sento anche di aver dato molto a questo sport. È una bella storia.”
Quando sei lontano dalle corse, cosa ti fa sentire davvero a casa? Hai un luogo, un rituale, un gesto che ti riconnette a te stesso?
“Sì, io sono una persona semplice. Ciò che mi fa davvero staccare dal ciclismo è stare a casa con mio figlio e la mia famiglia, vivere momenti semplici. Portarlo a scuola, mangiare insieme, giocare, insegnargli cose… Ecco, queste sono le cose più importanti per me quando non sono in gara.
Cercare di essere un buon padre: questo è ciò che conta davvero.”
“Born to dare” – nato per osare – è il motto di Tudor, sponsor del tuo team, e sembra che ti sia cucito addosso. Hai spesso parlato del piacere di attaccare, anche quando non era il momento perfetto. È una questione di stile, di istinto o di identità?

“Sì, il motto “Born to dare” mi rappresenta molto. Sono sempre stato un corridore che ama attaccare, provare cose fuori dall’ordinario. Aspettare il momento decisivo alla fine di una corsa mi ha sempre un po’ frenato, anche se a volte bisogna farlo per vincere. Ma i momenti in cui bisogna osare, creare movimento, sono quelli che più mi rappresentano.
Quindi sì, direi che è una questione di identità e di stile. Ci sono corridori – come gli sprinter – che devono aspettare il finale. Io sono più uno che ama tentare cose, e mi va benissimo così.”
Hai vissuto momenti di gloria assoluta e altri di lotta silenziosa. Quali qualità ti hanno aiutato a resistere quando le vittorie non arrivavano?
La resilienza. È una parola che si sente spesso, ma è davvero importante e acquista tutto il suo senso nei momenti difficili. Avere sempre un atteggiamento positivo, cercare di vedere il lato buono delle cose, trasformare il negativo in energia positiva: è questo che mi ha permesso di rialzarmi quando le cose non andavano.
Penso che sia una qualità fondamentale nella vita e anche nel ciclismo.
C’è una salita, reale o simbolica, che consideri la più difficile della tua carriera?
“Sì, penso al muro di Huy, avendolo affrontato più volte alla Freccia Vallone: l’ho mancata varie volte, ma l’ho anche vinta. Non è forse la più dura della mia carriera, ma è sicuramente una delle più difficili. Non credo che ci tornerei volentieri a piedi!
Poi ho un ricordo terribile della Vuelta 2017: si saliva l’Angliru, o qualcosa del genere. Affrontai quella salita già stanco, e fu interminabile. Non credo che ci tornerò… almeno per ora!”
Cosa pensi del cambiamento radicale nell’alimentazione nel ciclismo: dal periodo delle privazioni e della magrezza estrema di dieci anni fa alla gestione attuale dei 120 grammi di carboidrati l’ora? È questa, secondo te, la principale ragione per cui le prestazioni sono aumentate?

“Sì, penso chiaramente che sia la principale ragione dell’evoluzione delle prestazioni. Dieci anni fa bisognava essere il più magri possibile, mangiare il meno possibile. Ricordo che, da neo-pro, non avevo molte conoscenze di nutrizione: mangiavo un po’ di tutto, a caso, e venivo guardato in modo strano. Oggi è l’opposto: i corridori si allenano per ingerire il massimo dei carboidrati per ora, in allenamento e in corsa. Ma non è una strategia adatta a tutti: io, per esempio, so che non riesco a tollerare 120g/h, quindi ho cercato di restare fedele a me stesso, ascoltare le mie sensazioni, ricordare come mi ero alimentato nei momenti migliori.
Ora mangio meglio e di più rispetto all’inizio della mia carriera, ma sono ancora lontano da ciò che riescono a fare alcuni. Anche per questo si va sempre più forte, sempre prima: i corridori hanno energia. E poi c’è il materiale, il livello generale che si è alzato… tutto questo fa sì che le velocità siano aumentate, che le corse si decidano più in fretta, e che il livello complessivo sia cresciuto. Questo è certo.”
Il giorno in cui scenderai per l’ultima volta dalla bici da professionista, dove ti piacerebbe essere, in che tipo di corsa e con quale sensazione dentro di te?
“Bella domanda, ma non me la sono mai posta prima… È difficile rispondere. Di sicuro sarà un momento carico di emozione, e vorrei che ci fossero le persone a me care, i miei compagni di squadra attuali ma anche quelli passati, per vivere insieme questo momento e chiudere il capitolo ciclismo nella mia vita.
Spero possa accadere in una bella corsa, ma non so ancora quale. Questo significa che non sono pronto per smettere… quindi direi che è una buona cosa!”