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La Granfondo Internazionale Felice Gimondi Bianchi

di - 06/05/2019

La 23^ edizione della Granfondo Internazionale Felice Gimondi Bianchi che si è svolta ieri è stata segnata dal maltempo, con questo non vi scriviamo nulla che non conoscete. Un evento atmosferico sicuramente eccezionale, unico nel suo genere quello che ha investito il Nord d’Italia, tutt’altro che imprevisto e che ha messo a dura prova il comitato organizzatore e chi ha voluto partecipare. Ecco la nostra opinione.

Il viale, sede di partenza e arrivo della Granfondo.

Non è facile scrivere di un evento come quello che si è verificato ieri alla Gimondi. Prima di tutto perché, essendo ciclisti, diventa difficile accettare che in primavera si debba verificare uno stratempo di questa portata. Perché da ciclisti praticanti, rivolgendo un pensiero a tutti i pedalatori, siamo da sempre abituati a rispettare il pensiero di chi sulla bici ci sale per piacere e per passione. Ma un pensiero (anche più d’uno) va rivolto a tutto il comitato organizzatore, obbligato a dover prendere comunque una decisione, giusta o sbagliata (anche in questo caso può dipendere dai punti di vista, tutti validi) ma comunque una decisione doveva essere presa. Si parla della Granfondo Internazionale La Felice Gimondi, una delle manifestazioni granfondistiche prese ad esempio per molti aspetti organizzativi, anche all’estero; non stiamo citando la garetta dei quattro cantoni, con tutto il rispetto per quest’ultima. In situazioni limite, come questa, qualsiasi decisione scontenta qualcuno, comunque sia e comunque vada.

Una bici appoggiata ad una cancellata, allo scollinamento del Selvino.

Nella settimana precedente l’evento, il comitato organizzatore era stato a più riprese sollecitato dagli iscritti circa le modalità con cui si sarebbe svolta, o non svolta, la manifestazione. Da parte sua il C.O. ha chiaramente indicato che un rinvio, o anche un differimento dell’orario di partenza, non erano opzioni praticabili e che ogni decisione sarebbe stata rimandata a domenica mattina stessa.  Fin qui nulla da eccepire. Chi ha una vaga idea di cosa voglia dire realizzare una qualunque granfondo, ed in particolare una manifestazione che parte dal cuore di una città operosa come Bergamo e che prevede il presidio delle strade da parte di poco meno di mille volontari (poche manifestazioni si possono permettere un rapporto di quasi 1:3, volontari vs partecipanti), decine di moto-staffette, ambulanze, divieti di transito importanti, comprende che tutto questo non poteva essere differito ad altra data o anche solo ritardato di un’ora. Ritardo della partenza che, al contrario di quanto auspicato da molti nei giorni precedenti, non avrebbe portato a prendere meno pioggia e freddo ma piuttosto all’annullamento perché sarebbero giunte in tempo le informazioni sui primi fiocchi di neve in arrivo sul percorso.

Anche proporre un percorso completamente alternativo che si svolgesse a quote più basse è purtroppo un’ipotesi decisamente irrealistica, perché in pratica richiede di avere con mesi di anticipo anche le autorizzazioni necessarie per un percorso significativamente diverso da tenere nel cassetto. Percorso che comunque dovrebbe essere segnato e presidiato con anticipo adeguato. Quindi certamente non un’opzione da considerare il giorno dell’evento stesso. Che alternative rimanevano dunque? Non molte: annullare l’evento in toto , ridurre il numero di percorsi o almeno istituire un severo cancello orario sui percorsi maggiori.

L’organizzazione della granfondo Gimondi si è orientata sulla seconda possibilità facendo confluire tutti i partenti, circa 1600, sul percorso corto. Scelta giusta o sbagliata? Di certo una scelta che competeva al comitato organizzatore e di cui si è assunto il merito e l’onere, come scritto in precedenza, per aver preso una decisione di peso con tutte le conseguenze e responsabilità del caso. Non molti sarebbero in grado di fare questo con un evento alle spalle di questa portata. Alla partenza, avvenuta quando aveva smesso di piovere da un’oretta, non pochi dei presenti si rammaricavano di non poter girare almeno sul medio. Questo e’ quello che dicevano in griglia ma avrebbero cambiato idea rapidamente, a riprova che la decisione di partire si è rivelata azzardata. In casi come questi è sempre difficile capire quale sia il confine tra eroismo e/o incoscienza, ognuno la vive a suo modo.

Un’istantanea delle condizioni meteo trovate all’attraversamento del primo colle, Colle del Pasta.

Soprassediamo sulla quantità di acqua presente al suolo che ha reso insidioso il tratto di avvicinamento al Colle del Pasta. Cosa prevedibile a fronte delle copiose precipitazioni notturne. A seguire il menù ha proposto un fortissimo vento nel tratto pianeggiante che portava verso l’ascesa del Colle Gallo, anche questo abbondantemente previsto dai bollettini (si vedano gli allerta lanciati sui laghi Garda e di Lecco, canali privilegiati per l’irruzione di vento da nord). Per rendere l’idea il gruppo di testa sbandava da un capo all’altro della strada quasi a formare principi di ventaglio.

Felice Gimondi e Giorgio Gori al via ufficiale

L’ascesa del Colle Gallo si è svolta sotto la pioggia per molti ed ha proposto qualche fiocco di neve ai più attardati. La discesa, di per sé impegnativa, lo era ancor di più per il fondo lavato e per il freddo, essendo la temperatura ormai prossima allo zero. Noi eravamo ben preparati, con lo spirito di chi partecipa ad una prova di endurance per raccontarla. Quando è necessario fare il report di un evento, bisogna confezionarlo anche quando le condizioni che ti si presentano di fronte vanno ben oltre il piacere di pedalare. Vero è che eravamo ben equipaggiati, bici disco (Bianchi Infinito CV Disc già utilizzata alle Strade Bianche) pneumatici tubeless gonfiati a 5 bar (Maxxis High Road, di cui parleremo in seguito su 4 Bicycle, perché proprio con la giornata di ieri abbiamo iniziato il test). Insomma, abbiamo cercato di azzerare molti dei rischi legati alla parte tecnica e meccanica ma il pensiero era rivolto a chi seguiva e sarebbe rimasto esposto al freddo più a lungo, magari non altrettanto ben equipaggiato.

Per dire, abbiamo visto schierarsi al via numerosi ciclisti provenienti dall’estero, dal Nord d’Europa in particolare, assolutamente non preparati né dal punto di vista mentale né da quello dell’abbigliamento, forse non pienamente consapevoli che anche in Italia possa fare freddo, di certo non a conoscenza di cosa possa significare scendere un passo alpino in una condizione di inverno rigido, dopo due ore o più. E ancora mancava l’ascesa al Selvino, a quasi 1000 metri di quota, senza considerare la bianca signora che copiosa aveva iniziato a scendere in vetta e poi via via a quote sempre più basse circa in coincidenza col sopraggiungere dei primi gruppi. La neve si attaccava ai vestiti, alle mani e alle lenti degli occhiali che frequentemente dovevano essere puliti. Al termine della discesa da Selvino, non pochi ciclisti non erano più in condizione di controllare la bici con prontezza. Alcuni erano in grossa difficoltà a causa dei limiti dei set di ruote o freni di cui disponevano. Che fossero in carbonio o in alluminio, le frenate dei caliper si erano fatte lunghissime.

A questo punto l’organizzazione interveniva giustamente ma forse tardivamente, impedendo a chi sopraggiungeva di salire verso Selvino. Oltre 800 partecipanti avevano imboccato la salita e di questi diverse decine hanno necessitato di assistenza, in cima e nelle prime parti della discesa. Aiuto prontamente fornito dai volontari presenti sul percorso. Ecco, qui permetteteci una divagazione: ogni volta che pedaliamo da queste parti, non solo in occasione della Granfondo Gimondi, restiamo colpiti dalla sempre generosa gente delle valli bergamasche e notare che c’era gente che applaudiva e incitava, nonostante la neve, la pioggia, il gelo e il vento.

Nonostante tutto, c’è stato chi non ha rinunciato ad interpretare la granfondo come una competizione. Negli ultimi 15km abbiamo personalmente assistito a tatticismi come se ci stesse giocando la maglia iridata e non un piazzamento in un evento mutilato, nei percorsi e nel numero dei partecipanti, dalle avverse condizioni meteo.

Uno degli arrivi con volata e soddisfazione per aver terminato la prova.

Ogni testa è un mondo. Hanno fatto bene gli atleti che hanno deciso di non partire perché non se la sentivano e non sono da biasimare quelli che invece son partiti se adeguatamente preparati sotto tutti i punti di vista (ecco, magari con i soli pantaloncini estivi, la giacchettina e i guantini con le dita corte, non era proprio il caso). Alla stessa maniera non si può dire che la decisione di far partire la corsa da parte del comitato organizzatore fosse completamente arbitraria. Di sicuro ci sarebbero state polemiche anche in caso di annullamento, specie se poi la neve non si fosse palesata come invece poi è accaduto. Ognuno ha avuto le sue ragioni e ognuna di queste va rispettata per come e nelle condizioni in cui è stata presa. Una riflessione potrebbe essere fatta in altri termini, diversi dalla valutazione se si può correre in condizioni di sicurezza o meno; in fondo, se ci pensiamo bene, la sicurezza è tanto nei mezzi del comitato organizzatore quanto nella testa e nelle mani, sui freni in particolare, dei partecipanti. Nessun granfondista è obbligato a prendere parte ad una gara, con il bello o con il cattivo tempo.

Il punto è se ha senso che manifestazioni che diventano delle vetrine, come la Gimondi di ieri, potremmo citarne molte altre, un paio di edizioni della Sportful, una edizione in particolare dell’Ötztaler (2003) ma anche Nove Colli, così solo per citare alcune tra le più gettonate, possano e debbano svolgersi regolarmente quando vengono disattese le condizioni per vivere una giornata di sport all’insegna del divertimento e della tranquillità. E se questo non è possibile, bisognerebbe prenderne atto, offrendo magari delle agevolazioni per la partecipazione all’edizione successiva: ma anche in questo caso, siamo sicuri, ci sarà qualcuno non soddisfatto della decisione presa, capace solamente di criticare e insultare attraverso i canali social, perché una cosa è esprimere il proprio disappunto, un’altra è pretendere la ragione denigrando gli altri. Per il resto viva la bici.

A cura della redazione tecnica e Davide Sanzogni

foto di Matteo Zanga, Marco Quaranta, C.O.

Alberto Fossati, nasco come biker agli inizi degli anni novanta, ho vissuto l'epoca d'oro dell'off road e i periodi della sua massima espansione nelle discipline race. Con il passare degli anni vengo trasportato nel mondo delle granfondo su strada a macinare km, facendo collimare la passione all'attività lavorativa, ma senza mai dimenticare le mie origini. Mi piace la tecnica della bici in tutte le sue forme, uno dei motivi per cui il mio interesse converge anche nelle direzioni di gravel e ciclocross. Amo la bicicletta intesa come progetto facente parte della nostra evoluzione e credo fermamente che la bici per essere raccontata debba, prima di tutto, essere vissuta.