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Mobilità sostenibile? Non questa…

di - 20/01/2024

di Eddy Zanenga

La mobilità sostenibile non esiste, o meglio, questa mobilità non è sostenibile.

Non ci prendiamo in giro… mobilità sostenibile” è solo un’affascinante espressione con cui si ottiene facile consenso. In realtà, oltre ai proclami c’è davvero poco, ormai nemmeno più l’indignazione per la morte di un ciclista o un pedone, a meno che si tratti di un personaggio noto.
Come è possibile chiamare “sostenibile” una mobilità che esige un prezzo di oltre 500 vite ogni anno?

Sicurezza stradale, un diritto solo sulla carta

La questione della sicurezza stradale, che periodicamente viene a galla nel nostro Paese, ha tristemente come protagonisti assoluti gli utenti più deboli: pedoni e ciclisti. Ma la sicurezza stradale non sarebbe (e non lo è) una questione “da ciclisti” o “da pedoni”, bensì di tutti i cittadini che dovrebbero sentirsi tutelati indipendentemente dal mezzo usato.

I dati del Ministero dei Trasporti sono impietosi: i ciclisti morti nel 2023 sono stati 197, e tra questi una dozzina sono casi di pirateria stradale. Sempre negli scorsi dodici mesi sono stati uccisi 434 pedoni, un dato questo agghiacciante…
Questo significa che le strisce pedonali non sono un luogo sicuro, nonostante tutte le accortezze messe in campo da comuni e province: dossi, sistemi di illuminazione, segnaletiche speciali… di fatto tutte misure risultate inutili, o quantomeno non incisive.
E, se da un lato è vero che non si deve misurare il sentimento della massa solo da ciò che accade sui social, è altrettanto vero che il paradosso di tutta questa tragica situazione è che l’utente debole (soprattutto il ciclista) è vittima di vere e proprie campagne di odio.
Il tutto mentre in Europa il trend sembra essere opposto: basta prendere Parigi e tutte le sue complessità, per comprendere come relativamente in poco tempo è possibile ridisegnare tutta la mobilità urbana e renderla a misura di ciclista urbano, con buona pace degli affezionati al motore.
Ma come è possibile invertire la tendenza anche nello stivale? Ci sono comuni virtuosi? Da quale situazione partiamo? Proviamo a far luce, sperando di trovare una via d’uscita… possibilmente ciclabile.

Gli incidenti

Ripartiamo dai dati in nostro possesso e proviamo a ragionare su uno in particolare: ISTAT ci dice che, nel 2021, sono morte 229 persone in bici e 18.037 sono i feriti. Di questi il 65% sono morti in città. Da qui si può ricavare piuttosto bene l’informazione che il problema maggiore sta proprio dove dovrebbero esserci maggiori tutele per i soggetti deboli, e invece accade l’esatto contrario: si muore di più in città, e sempre di più a morire è il ciclista urbano.
Se poi andiamo a prendere i dati relativamente ai pedoni morti, il sospetto che qualcosa non vada diventa certezza: l’Associazione Sostenitori e Amici della Polizia Stradale, tramite l’Osservatorio Pedoni, riporta ben 318 morti investiti (molti sulle strisce) dal 1° gennaio al 1° ottobre 2023. E qui la bici con l’indisciplinato sopra non centra proprio nulla.
Secondo il rapporto annuale di FIAB (Federazione Italiana amici della Bicicletta), la prima causa di incidenti è la distrazione alla guida, che in città aumenta esponenzialmente la sua incidenza.

Cambio di prospettiva

Ma partire dal fatto che le città non sono sicure per i ciclisti o i pedoni per abbassare il numero di incidenti è davvero la prospettiva corretta?
Lo abbiamo chiesto a Roberto Guido, presidente di “Lecce Pedala”, il movimento che racchiude circa trenta associazioni locali tra cui anche FIAB: “Penso si debba lavorare per liberare un sistema, quello del traffico, soffocato da se stesso. Bisogna avere pazienza, ma il tema penso debba essere quello di rendere le città più vivibili e, di conseguenza, più sicure. Una chiave è offrire un vantaggio al cittadino che pedala: se riusciamo a palesare che il ciclista si muove più velocemente, saltando le code e non deve perdere le mezz’ore cercando parcheggio, avremo più ciclisti e meno auto”. Quindi più sicurezza.
Certo è che le infrastrutture ciclabili e le segnaletiche in Italia portano con sé anche una confusione e una mancanza normativa enorme. Basti pensare che non c’è nemmeno un modo univoco di segnalare un attraversamento ciclabile e ancora non è chiaro quando un ciclista può o non può attraversare sulle strisce. Davanti a una tale indeterminazione, diventa difficile anche creare infrastrutture sicure.
Certo il primo punto è fare le strutture: senza piscina in città non esisterà mai una squadra di nuoto… senza ciclabili non circoleranno bici. E qui, le sensibilità e le volontà dei comuni variano molto, come variano le opposizioni ai progetti. In mezzo c’è la realizzazione di strutture ancora troppo confuse anche nelle regole e si vede di tutto: attraversamenti pedonali con la segnaletica orizzontale per ciclisti e il contrario. Ciclabili che si trasformano in attraversamenti pedonali ogni 200 metri, ecc…

Conclusioni

Non nascondiamoci dietro a un dito: spesso quando inforchiamo la bici siamo indisciplinati. In città come fuori dai centri urbani: sono noti i comportamenti insensati e pericolosi per la nostra stessa incolumità, e che possono generare nell’automobilista incertezze e quindi situazioni di pericolo. Queste, che sono vere e proprie infrazioni non devono avere spazio di discussione: non si fanno.
È ancora più vero però che le cause dei morti e dei feriti non possono essere essi stessi, e le strutture da sole non bastano.
L’educazione stradale è prima di tutto educazione civica, e passa per l’educazione al rispetto degli spazi altrui e delle regole. La società tutta non dovrebbe accettare che in strada si commettano tante infrazioni, che si viaggi a velocità assurde in autostrada o che si parcheggi selvaggiamente, perché poi questi atteggiamenti riportati nei pressi di un attraversamento pedonale si trasformano in tragedie.
Tutti i nostri interlocutori concludono però i loro interventi con proposte, possibili soluzioni strutturali, politiche e culturali.
Abbiamo tutti l’obbligo di svolta… al rispetto verso gli altri.

La parola a chi viaggia

Paola Gianotti, atleta ciclo viaggiatrice e scrittrice, molto attiva sul fronte della sicurezza stradale:
La mia sensazione è che non ci sia ancora una vera e propria presa di coscienza in Italia. Io ho trovato molta più attenzione quasi ovunque nel mondo, persino in Brasile. Qui dobbiamo agire in fretta sia sul fronte delle piste o zone ciclabili, sia sul fronte delle regole”.

Quali secondo te sono le azioni più urgenti?

Con Marco Cavorso e Maurizio Fondriest ci stiamo impegnando a fondo per ottenere il famoso metro e mezzo di distanza obbligatorio dalle bici, nel sorpasso. È una piccola cosa, ma è un passo. Tuttavia manca una visione nazionale, manca una volontà politica di creare le condizioni per cambiare le cose radicalmente… ma se ci muoviamo tutti insieme ce la possiamo fare”.

Della stessa opinione anche Omar Di Felice, ultracyclist che ha pedalato in tutto il mondo (è appena tornato dal tentativo di attraversare l’Antartide e raggiungere il Polo Sud):
Se è vero che le strutture in Italia sono tra le peggiori in Europa, queste non devono diventare una scusa per giustificare comportamenti alla guida che non sono accettabili, anzi, proprio perché le strutture non ci sono bisogna prestare più attenzione.

La sensazione è però che questa consapevolezza non ci sia

No – continua Omar – quando ho fatto 7.000 km nella TransAmerica (vinta n.d.r.) non ho corso i rischi enormi che corro qui quotidianamente. In Italia non c’è la comprensione del problema, né il senso del rispetto per chi occupa la strada come te”.

Quindi prima di tutto un problema di cultura?

Si, ma anche di controlli. Non sono convinto che si risolvano i problemi con l’autoritarismo, ma nell’immediato ci devono essere più controlli e inasprimento delle pene. Contemporaneamente, dobbiamo lavorare su scelte come le ‘città 30’: questo abbassa i rischi (un impatto a 50 all’ora è enormemente più pericoloso di uno a 30) senza diminuire la media della velocità degli spostamenti nelle nostre città. Questo può essere lo strumento per mettere al centro della città il cittadino e non l’auto

Il nuovo codice della strada

Il nuovo Codice della Strada 2023 introduce alcune novità: intanto la nuova definizione di “Strada urbana ciclabile”, ossia una strada urbana a unica carreggiata con limite di velocità non superiore a 30 km/h e priorità per le bici, definita da apposita segnaletica verticale. Non è necessaria la presenza di un marciapiede. Questo tipo di strade è già molto diffuso da decenni nei centri urbani del nord Europa.
“Circolazione in senso opposto”: dove possibile si potrà consentire la circolazione delle bici in senso opposto, attraverso la realizzazione di corsie a doppio senso ciclabile (la strada deve avere limite a 30 km/h)
“L’attestamento ciclabile”: sarà possibile istituire la zona di ciclabile davanti alla linea di arresto per tutti gli altri veicoli, su strade con una corsia per senso di marcia e con limite di velocità inferiore o uguale a 50 km/h, nelle quali è presente una pista ciclabile laterale o una corsia ciclabile.
“Il metro e mezzo”: è previsto l’obbligo per i veicoli a motore, su tutte le tipologie di strade sia urbane che extraurbane, di mantenersi ad adeguata distanza laterale (almeno 1,5 metri ove le condizioni della strada lo consentano).