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William Finnegan e Barbarian Days: a surfing life

di - 13/09/2017

Report a cura di Max Sandri, referente Matuse Italy
Uno si chiede, ma cosa può avere di interessante un libro sul surf da arrivare a vincere un premio Pulitzer?
La maggior parte di voi l’ha già letto, e 4surf ne ha già scritto abbondantemente. Ma, se possibile vorrei condividere l’energia che ho respirato nelle 2 ore di intervista, sperando di aggiungere nuove riflessioni al riguardo.

Per me è stata una scoperta illuminante.  Il libro non l’ho ancora terminato ma nel frattempo ho incontrato Finnegan.  Col video fatto da telefono ho voluto registrare una parte che secondo me è stata cruciale. Il traduttore non ha trasmesso fedelmente il concetto. William parla del lato spirituale più intimo legato al surf, quell’attimo in cui ti avvicini alla zona più violenta dell’onda, quella più rischiosa, che se ti travolge non sai come andrà a finire. E’ lì che assapori il climax, sfidando la natura violenta sentendoti parte di essa. E ti domandi “why am I doing this?!”  È come carezzare un serpente o lanciarsi col paracadute, attraversare una foresta nella notte. Quella sensazione che si prova quando si supera il proprio limite di comfort, per avvicinarsi e sfiorare la natura selvaggia, e con essa il nostro lato barbaro. Da lì il titolo.

Il lato barbaro ha a che fare con il codice tribale, quel vivere selvaggio che è tipico del surf.  Proprio per questo è interessante il suo libro. Lui racconta il mondo che cambia, visto dagli occhi di chi sta dall’altra parte, di chi vive contro il sistema, a contatto con la natura.
Ha parlato di Trump, lo considera la rovina del pianeta. Si preoccupa di stanziare fondi per la popolazione vittima di continui uragani ed alluvioni ma non si domanda se aver rinunciato agli accordi sul clima firmato a Parigi da Obama nel 2015 non sia direttamente collegata ai cambiamenti climatici. Trump sostiene addirittura che la questione “ambientale” è una “Chinese issue” inventata ad arte per ottenere vantaggio economico. Oltre al danno ambientale l’era Trump sta portando a pericolose derive sociali, come il negazionismo e il ritorno dei dogmi della Bibbia contro la libertà della scienza. Ne ha scritto sul New Yorker diversi articoli. Ha ricordato con tristezza la morte prematura di Zander Venezia in acqua insieme ad altri surfisti professionisti tra le onde pompate dall’uragano Irma. Probabilmente ha battuto la testa sul fondale.

Secondo i meteorologi, fino a pochi anni fa, queste catastrofi accadevano ogni 500 anni. Ora accadono 3 volte nello stesso anno. Deve farci riflettere.
Carlo Annese gli ha chiesto se ha mai incontrato un guru del surf, se ne ricorda uno in particolare. William ha raccontato di quel giorno, nel ’68 da una spiaggia in California, quando lui e gli altri locals videro un surfista cavalcare un’onda per oltre 400 metri, ad una velocità anomala. Finita l’onda il ragazzo uscì dall’acqua con una tavola stranissima a la sua domanda fu “what is that?? Who are you??” Un australiano che usava una shortboard, che come tale permetteva surfate più agili e rapide delle classiche e pesanti long e malibu. Dopo 30 anni a Finnegan arriva una e-mail; era proprio quel ragazzo australiano che gli scrive “thanks, thanks, thanks…I spent 30 year telling what I did that day in California and none of my friends ever believed me, now you wrote it, so everybody know”.
L’avvento delle shortboards ha segnato il cambiamento d’epoca, l’evoluzione ad ampio spettro, economica, tecnologica e sociale che ha caratterizzato gli anni ’70.

Alla fine Annese ha chiesto se Bill fa ancora surf, ora che è over 60.
“Un caro amico, la scorsa settimana mi ha detto, devi venire in New Jersey, dopo l’una arrivano delle onde spettacolari. Ma come, il meteo non dà nulla di buono. Credimi, vieni.  Così son partito. Aveva ragione, finito il temporale il cielo si è aperto, le onde sono arrivate ed erano fantastiche, io e il mio amico soli in acqua a godercele.
Invecchiare ahimè è triste, soprattutto per un surfista. Forza fisica e lucidità mentale se ne vanno, tu guardi le onde dalla spiaggia le studi, quelle più alte, sai come si fa ad affrontarle, ma la forma fisica non te lo permette.”

Rimpiangi i tempi in cui il surf era per pochi? Sei contro o a favore del boom commerciale in atto?
“Il surf è considerato uno sport “fico” e con esso la filosofia e il marketing che lo ha trasformato in status, quindi proliferano surfisti poser e nuovi marchi di mute, tavole e abbigliamento surfistico. (non ho potuto fare a meno di pensare a MATUSE che produce mute proprio in California utilizzando un materiale ecologico ed innovativo, il geoprene, avrei voluto chiedergli se le conosce). Io avrei preferito che questo sport fosse considerato per “pochi sfigati selvaggi”  non per una massa crescente, che impoverisce lo spirito di purezza e natura che lo ha sempre contraddistinto. Surf come disciplina alle olimpiadi – NO THANKS. Io prediligo il surf degli albori, non quello delle competizioni professionistiche.”

Dalla platea una domanda da una donna:  “vi sono donne che fanno surf, sono brave?”
William:  “So che ce ne sono molte e mi han raccontato di situazioni imbarazzanti in cui ragazze di sedici anni sulla line-up dimostrano di essere molto più performanti della maggioranza di maschi presenti. Non mi è mai capitato di assistere a scene di questo tipo, ma spero di vederne anche io prima o poi.”

Dopo i saluti e gli applausi Finnegan per una buona mezz’ora ha firmato le copie del suo libro e stretto mano ai partecipanti.

 

Chi è William Finnegan
Giornalista e scrittore (nato a New York nel 1952), è cresciuto tra Los Angeles e le Hawaii. Ha girovagato per oceani e terre emerse su ogni mezzo di trasporto, guadagnandosi da vivere come frenatore sui treni della Southern Pacific, commesso in una libreria, reporter, lavapiatti, insegnante d’inglese nei ghetti di Città del Capo al culmine dell’apartheid. Dal 1987 scrive per il “New Yorker” e collabora con prestigiose riviste d’Oltreoceano (“Granta”, “Harper’s”, “The New York Review of Books”). Nell’arco della sua carriera giornalistica ha pubblicato diversi libri e si è occupato di guerra, razzismo, povertà, criminalità e globalizzazione, firmando articoli e reportage dall’Australia a El Salvador, dal Messico al Mozambico. Ogni tappa della sua esistenza è stata scandita dal surf, «una droga che vi può rendere schiavi per la vita» e che lo ha portato a solcare i mari di Waikiki, Nias, Tavarua, Ocean Beach, Jardim do Mar. La caccia delle onde, tra amori, terrori, ferite del corpo e intense amicizie, anima anche le pagine del suo “Giorni selvaggi”, un memoir che nel 2016 gli è valso il Premio Pulitzer per la migliore autobiografia e il William Hill Sports Book of the Year.