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Corsica in bici, un assaggio

di - 19/06/2022

Chi ci è già stato può saltare queste prime righe, oppure leggerle se cerca conferme. Chi invece non ha mai messo piede sulla più italiana delle terre francesi, vi potrà trovare la spinta che gli mancava per andare sul sito di Corsica Ferries e acquistare il biglietto. L’ultima vota che andai in Corsica, era in realtà anche la prima, fu oltre vent’anni fa: si trattava del lancio stampa di non ricordo quale MTB. Fu una cosa breve, tre giorni, viaggio di andata e ritorno da Milano compreso. Pedalammo all’estremità nord del “dito”. In pratica un solo giorno di esperienza in terra corsa, ma sufficiente a ripromettermi: “Caspita, che posto! Qui ci devo tornare con più calma…

Nel ventre della balena

Sono passati lustri quando, finalmente, l’occasione si è presentata. Questa volta i giorni sono stati quattro, pieni, e concentrati nella zona che dalla penisola di Cap Corse si estende verso Ovest, fino a Ile Rousse: la Balagne.
Inoltre, non sono solo. Siamo in tre, ciascuno con il suo perché. Cristiano biker, io strada/gravel, Martina foto. La nostra avventura comincia dal porto di Savona, da cui ci imbarchiamo alla volta di Bastia. Ad attenderci, dopo la traversata, ci sarà Remy, personaggio originale che ci guiderà nella scoperta di questo spicchio di Corsica. Abbiamo optato per il traghetto della Corsica Ferries che viaggia di notte, per guadagnare ore di sole, così alle 23 entriamo nella bocca della balena e ne usciamo alle 9, dopo una buona nottata facilitata dal mare calmo. La traversata ha sempre un certo fascino, e quando è fatta al chiaro di luna è difficile lasciare il ponte e la vista del mare scuro per infilarsi in cabina…

Remy

Remy e il suo fuoristrada d’annata, rosso, ci attendono a metà strada fra Bastia e Ile Rousse, nostra meta per i primi due giorni. Attaccate al portellone, le nostre bici, due Cannondale: una Scalpel HT per Cristiano e una Topstone con telaio in alluminio per me.
Sono bastati pochi chilometri di strade interne per apprezzare quanta Natura ci sia intorno a noi e quante poche tracce dell’uomo. Alture anche aspre coperte di vegetazione, che si susseguono senza soluzione di continuità. Pochissimo traffico.
Arrivati a Ile Rousse, siamo tramortiti dalla bellezza del mare, che compensa quella strana atmosfera di abbandono, tipica delle località che riprendono vita solo in concomitanza con la stagione turistica. La Natura però non va mai in letargo e ci regala spiagge bianche, acqua dai colori straordinari e trail nella macchia lungo la costa, sui quali ci infiliamo subito, giusto il tempo di lasciare le valigie in albergo e indossare gli “abiti da lavoro”.

Si uniscono a noi alcuni biker locali, che dopo la divagazione in riva al mare e dopo averci dimostrato che la lingua corsa è assai simile all’italiano e molto più comprensibile del francese, ci guidano verso le alture dell’interno. Si guadagna quota in fretta lungo strade sterrate (adatte anche alle bici gravel), che svelano panorami sempre più ampi, sia verso il mare sia verso le alte montagne dell’interno (si arriva a 2.700 m e qui, fino in primavera, si scia). Il primo giorno scorre così, a zonzo per carrarecce sulle alture alle spalle di Ile Rousse, fra campi verdi, alberi in fiore e resti di vecchi monasteri.

Bulintier lascerie d’esser Scappinu,
per esse u casacchin ch’eo ti dunai
e stringhie lu to senu alabastrinu;
e or chi drumendu in lettu ti ne stai,
oh fussi u cavizzale, o u cuscinettu,
o u lenzolu supranu d’u to lettu!

“U Sirinatu di Scappinu”, S. Viale
(uno dei primi esempi di letteratura corsa)

Verso l’interno

Ile Rousse – Isola Rossa – si chiama così per via del colore delle rocce del promontorio sul quale sorge il suo faro, ed è proprio per guardarle in questa condizione cromatica che la mattina seguente ci siamo alzati all’alba e abbiamo pedalato lungo la breve salita cha dal porto conduce lì sopra. A godere dello spettacolo solo noi, i gabbiani che giocavano a inseguirsi fra le rocce a strapiombo sul mare cobalto e un paio di runner locali che, probabilmente come abitudine, cominciano la loro giornata con una corsa sino al faro.
Dopo gli occhi ci siamo riempiti lo stomaco con la classica colazione alla francese e poi manubrio verso Sud, con rotta su Belgodere.
Nome sbagliato, perché per arrivarci ci sono 17 km di salita, non ripida e costante, ma pur sempre salita… In Corsica, non appena lasci la costa e ti addentri un po’, lo scenario cambia in modo drastico (un po’ come in Liguria), e Belgodere è il tipico paesino di montagna. Ad accoglierci, quattro cani che ci salutano dal cassone di un pick-up (in Corsica usano trasportarli così…) e un gruppetto di attempati cicloturisti con le bici trasformate in cavalli da soma. Il perché ce lo ha spiegato Remy: Belgodere è sulla famosa GT20, La Grande Traversée, itinerario ciclistico di circa 600 km che da Bastia porta a Bonifacio attraversando per il lungo (e anche un po’ per il largo) la Corsica. Ma questa è un’altra storia, e ve la racconteremo nel secondo capitolo di questo libro.

A pieno carico

A Belgodere giungiamo affamati, e verso ora di pranzo quindi ci infiliamo in un pittoresco negozietto dal cui soffitto pendono salumi di ogni genere e dimensione, e sui cui scaffali ci guardano bottiglie di vino locale e birre artigianali. È amore a prima vista, al punto che, quando sarà il momento di lasciare la calda ospitalità del suo giovane proprietario, facciamo scorta di delizie con le quali cerchiamo di riempire la capiente borsa da sella della mia Topstone… Dopo aver esplorato il piccolo borgo e aver proseguito ancora un po’ lungo l’itinerario, torniamo sui nostri passi e dirigiamo le bici verso Saint Florent, che sarà la base del giro del giorno seguente. Diversamente però dall’alba dell’isola rossa, la mattina di San Fiorenzo è grigia e piovosa. Cambiamo dunque programma e, dopo aver fatto un po’ di strada fra i vicoli del centro storico e aver visitato la cittadella (il resto non è granché), ci spostiamo con l’auto verso Est, lungo la litoranea. Secondo i piani avremmo invece dovuto andare nel Desert des Agriate, dalla parte opposta, ma Remy ci consiglia così. Scelta giusta, il meteo ci dà una breve tregua e riusciamo a pedalare un po’ sulla favolosa litoranea fino a Nonza e alla sua straordinaria e immensa spiaggia nera. Prima di scendere a calpestarla, però, facciamo tappa in un localino così tipico che se te lo mostrassero in foto chiedendoti “dov’è?”, risponderesti senza pensarci due secondi “in Francia” (in fondo, anche se ai corsi non entusiasma, anche qui siamo in Francia). Il Cafe de la Tour è un posto che, quando ordini un piatto di sardine, ti portano un piatto con sopra una scatoletta di sardine, il limone, mezza baguette e il burro…

Troppo poco

Il programma per l’ultimo giorno, meteo permettendo, contemplava un mezzo periplo della penisola di Cap Corse. La notte ha portato consiglio e anche bel tempo. Per fortuna, perché questa è la parte scenograficamente più spettacolare di tutto il giro. Si percorre infatti la strada costiera che sale da San Fiorenzo verso Capo Corso, con lo sguardo che abbraccia non solo il mare, ma tutta la costa che si perde verso Ovest in molteplici piani prospettici. Una strada tagliata nella roccia, a picco sul mare mosso ma sempre di un colore blu intenso.
Dopo qualche chilometro, Remy ci consiglia di lasciare la strada principale e di deviare sulla destra, verso monte. L’asfalto si inerpica fra le rocce e nel bosco: in un paio di chilometri ci siamo alzati di duecento metri rispetto alla costiera su cui eravamo prima. La strada attraversa un fitto bosco, da cui sbuca una gang di maiali selvatici, poi spiana e si trasforma in un’altra costiera, molto più in alto, che segue anch’essa il profilo della montagna e regala un orizzonte ancora più ampio e spettacolare. La domanda nasce spontanbea: “Ma perché gli altri se ne stanno là sotto, anziché venire quassù?“. Gli unici esseri umani che incrociamo sono ciclisti anche loro, turisti vestiti da città che pedalano su biciclette assistite. Ottima scelta, anche la salita sarebbe stata più agile.
A tre quarti del “dito” la strada scende e si ricongiunge con la corniche più bassa. Siamo a Pino (ennesimo nome italiano), e da qui piega decisa verso Est per tagliare tutta la penisola e sbucare sul lato che fronteggia l’Italia. Anche questa traversata ci lascia senza fiato, prima di tornare fra le case della costa che ci accompagna a Bastia. Il traghetto che ci riporterà sulla terraferma partirà la mattina, quindi trascorriamo la notte in un albergo proprio di fronte agli imbarchi dei ferry. La sveglia è presto e la colazione sulla terrazza ci regala un’alba che è nel contempo simbolo di un inizio e di una fine.
E regala anche una nuova promessa: tornare per mangiare l’intero piatto di cui abbiamo solo fatto un assaggio.

Un ringraziamento a

Foto Martina Folco Zambelli | HLMPHOTO

Mi piacciono le biciclette, tutte, e mi piace pedalare. Mi piace ascoltare le belle storie di uomini e di bici, e ogni tanto raccontarne qualcuna. L'amore è nato sulla sabbia, con le biglie di Bitossi e De Vlaeminck ed è maturato sui sentieri del Mottarone in sella a una Specialized Rockhopper, rossa e rigida. Avevo appena cominciato a scrivere di neve quando rimasi folgorato da quelle bici reazionarie con le ruote tassellate, i manubri larghi e i nomi americani. Da quel momento in poi fu solo Mountain Bike, e divenne anche il mio lavoro. Un lavoro bellissimo, che culminò con la direzione di Tutto MTB. A quei tempi era la Bibbia. Dopo un po' di anni la vita e la penna parlarono di altro, ma il cuore rimase sempre sui pedali. Le mountain bike diventarono front, full, in alluminio, in carbonio, le ruote si ingrandirono e le escursioni aumentarono, e io maturavo come loro. Cominciai a frequentare anche l'asfalto, scettico ma curioso. Iscrivendomi alle gare per pedalare senza le auto a fare paura. Poi, finalmente arrivò il Gravel, un meraviglioso dejavu, un tuffo nelle vecchie emozioni. La vita e la penna nel frattempo erano tornate a parlare di pedali: il cerchio si era meravigliosamente chiuso.