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L’incidente di Alaphilippe e le colpe del Gruppo

di - 25/04/2022

La responsabilità che noi corridori assumiamo ogni volta che ci prendiamo dei rischi per guadagnare una posizione nel gruppo, può avere pesanti conseguenze per i 100 ragazzi che abbiamo alle nostre spalle.”

È passato un giorno ma è ancora scosso, il capitano della DSM, dopo quanto successo nel finale della Liegi-Bastogne-Liegi. A 60 km dal traguardo, sulla discesa verso il Col du Rosiere, una maxi caduta ha coinvolto decine di corridori, fra cui Alaphilippe, che ha rischiato davvero grosso. Il Campione del Mondo è finito in un fosso e ha sbattuto contro un albero, rompendosi due costole, una scapola e subendo uno pneumotorace. Romain Bardet, anche lui coinvolto, ma senza conseguenze, non ha esitato un attimo a correre in soccorso di Alaphilippe e ad assisterlo fino all’arrivo dei soccorsi, incurante del fatto che ormai il gruppo fosse troppo avanti per pensare a un recupero in ottica gara.

L’ultima volta che ho visto una scena del genere è stato nel 2015, con la caduta di William Bonnet. Ho visto Julian cinque o sei metri più in basso, rispetto a me ed è stato uno shock. Non c’era nessuno e lui aveva bisogno di aiuto, era una situazione d’urgenza. Non riusciva né a respirare né a parlare. Sono arrivati il meccanico e poi il dottore, ma la strada era completamente bloccata. Nessuno lo aveva visto, anche perché dalla strada non era semplice vederlo. Era davvero in una brutta situazione. Anch’io ero sotto shock…

Dopo il racconto a caldo al termine della corsa, Bardet è tornato questa mattina sull’argomento, molto toccato dai messaggi di apprezzamento dei tifosi ma ancora frastornato. Lo ha fatto con un post sui suoi canali social, nel quale riflette (e invita anche gli altri corridori a farlo) sulle responsabilità del gruppo in episodi come questo.

 

Mi hanno molto colpito i vostri messaggi, ma penso che chiunque avrebbe agito come ho fatto io, perché l’importanza della gara passa in secondo piano davanti all’integrità e alla salute di ognuno di noi. Al di là delle conseguenze dirette, ciò che è accaduto mi fa riflettere sulle nostre responsabilità per questi incidenti, le cui conseguenze avrebbero potuto essere tragiche, nel rispetto che dobbiamo portarci fra noi corridori.
Ero proprio dietro Tom Pidcock e Jérémy Cabot quando si sono presi dentro.

Io non voglio dare colpe o scagliare la prima pietra e non sono il depositario della verità. Dico semplicemente che diamo corpo e anima per uno sport che è la nostra passione, ma non dobbiamo dimenticare che basta un attimo per trasformare tutto in tragedia.
Faccio i miei migliori auguri di pronto recupero ai ragazzi coinvolti nella caduta.

Mi piacciono le biciclette, tutte, e mi piace pedalare. Mi piace ascoltare le belle storie di uomini e di bici, e ogni tanto raccontarne qualcuna. L'amore è nato sulla sabbia, con le biglie di Bitossi e De Vlaeminck ed è maturato sui sentieri del Mottarone in sella a una Specialized Rockhopper, rossa e rigida. Avevo appena cominciato a scrivere di neve quando rimasi folgorato da quelle bici reazionarie con le ruote tassellate, i manubri larghi e i nomi americani. Da quel momento in poi fu solo Mountain Bike, e divenne anche il mio lavoro. Un lavoro bellissimo, che culminò con la direzione di Tutto MTB. A quei tempi era la Bibbia. Dopo un po' di anni la vita e la penna parlarono di altro, ma il cuore rimase sempre sui pedali. Le mountain bike diventarono front, full, in alluminio, in carbonio, le ruote si ingrandirono e le escursioni aumentarono, e io maturavo come loro. Cominciai a frequentare anche l'asfalto, scettico ma curioso. Iscrivendomi alle gare per pedalare senza le auto a fare paura. Poi, finalmente arrivò il Gravel, un meraviglioso dejavu, un tuffo nelle vecchie emozioni. La vita e la penna nel frattempo erano tornate a parlare di pedali: il cerchio si era meravigliosamente chiuso.