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Recensione: Giorni Selvaggi di William Finnegan

di - 20/08/2016

A cura di Francesco Aldo Fiorentino (Franz) – Foto: Silvia Potenza

Me ne aveva parlato in modo entusiasta a fine primavera una mia amica corrispondente per il New York Times, di William Finnegan e del suo libro “Barbarian days“, dicendomi che era molto bello e che aveva vinto il premio Pulitzer e che era incentrato tutto sul surf. Dopo qualche mese la Biblioteca Sormani di Milano mi invita alla presentazione di “Giorni selvaggi”, che è la traduzione italiana di “Barbarian days”, nel bel chiostro dello storico edificio a due passi da Duomo. Ci vado per prendere il libro dell’estate e invece compro il libro della vita; il Pulitzer non è certo il Campiello e non lo danno di certo a caso. Alla presentazione c’è l’autore William Finnegan, i tipi della casa editrice 66th and 2nd che hanno editato il libro in Italia, 4 o 5 amici e amiche surfer e un pò di gente che passava di li e cultori di letteratura. Scopro li che William Finnegan è un corrispondente di guerra e notista politico per il New Yorker ed ha scritto parecchie altre cose e che è un signore di 64 anni ben portati simpatico e afabile.

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Non sto li tutto il tempo della presentazione, perchè i conduttori della presentazione non sono surfer e gli fanno delle domande tra il banale e il cretino, e perchè devo andare a lavorare. Inizio il libro la sera stessa e in una settimana divoro e metabolizzo le quasi 500 pagine del memoire. Un memoire che parte da quando l’autore ha 12 anni ed è alle Hawaii con la famiglia appena arrivati da Los Angeles, si sviluppa nei successivi 52 anni. Non c’è pagina dove non si parli di surf, in modo tecnico, filosofico , fenomenologico, e anche quando non se ne parla se ne parla in modo metaforico. Il surf è una metafora della vita di Finnegan e viceversa ma lo è anche del lettore se nel surf  è già coinvolto in maniera grave. Il libro è letteratura e non genere nel senso che non usa escamotage narrativi di azione o di trama.A volte sembra Joice e forse anche un po Proust, spesso è Steinbeck e a volte raggiunge Twain e anche Melville, trasponendo il mito moderno dell’indomabile e incurante leviatano nell’onda e nel surf quando Williem Finnegan, che non si definisce un big wave rider, ma via via è sempre coinvolto in onde sempre più grandi, impegnative e pericolose per alcuni versi paragonabili alla osessione di Achab.

Un Achab colto liberal e proggressista, intelligente che mai cade nel machismo e nello sciovinismo; che si misura e prende le misure nella sfida di onde impegnativissime. In questo capolavoro letterario c’è il viaggio continuo alla ricerca di onde sempre nuove e solitarie, nascoste che via via vengono svelate e affollate, affittate e vendute. Il viaggio e le onde che lo portano in contatto con realtà locali e lontane su cui si interroga e prende posizione e a loro volta lo portano ineluttabilmente verso la sua carriera di corrispondente e notista scevro, progressista e intellettualmente onestissimo. La nostalgia è sempre presente come lo è sempre in ogni surfer ma non scivola mai nel rimpianto astioso come spesso invece accade e non lo ferma ne lo lega al passato e parafrasando il motto di Lopez, che le onde sono dove le cerchi, continua a cercarle.
La consapevolezza e le mancanza di vanto caratterizzano la struttura narrativa dei giorni barbarici di Finnegan scanditi dalla descrizione dei suoi affetti come amici, fidanzate, genitori e fratelli che occupano e scandiscono peculiarmente i passaggi narrativi. Non fa mai sfoggio di grossi nomi leggendari e famosi del surf che sicuramente avrà conosciuto e conosce. La letteratura non ha bisogno di stupire con nomi o espedienti. Di questo libro mi è piaciuto tutto e l’unico rimpianto che ho è di essermelo portato in vacanza e letto tra una surfata ed un’altra e adesso sembra un rotolo di carta igienica bagnata male; ma lo metterò lo stesso nella mia biblioteca tra i grandi classici della letteratura, orgoglioso della dedica autografata. Buona lettura e buone onde, amici.

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