Di Chiara Leoni
Qualche tempo fa, camminando per l’enorme atrio dell’ospedale Niguarda di Milano, una specie di passage di benjaminiana memoria su cui affacciano bar profumati di brioche, gioiellerie, botteghe del caffè, negozi di calzature e ogni sorta di richiamo per shopaholic si possa immaginare, tanto da farti dubitare per un istante di essere davvero all’interno di una clinica, il mio sguardo è stato catturato da un libretto che occhieggiava dallo scaffale della libreria sotto una delle enormi arcate: “Filosofia del surf”.
Un libriccino minuscolo, uscito per una casa editrice che di solito si occupa, appunto, di filosofia. Credo si possa anche essere abbastanza certi che la parola “surf” compaia solo in questo libro del loro catalogo.
Ho acquistato l’opuscolo incellofanato, senza sapere bene cosa aspettarmi.
Verso l’altro libro, acquistato online, “Sul surf e lo zen” di Jaimal Yogis nutrivo, invece, aperta diffidenza: la copertina vagamente hippy mi faceva temere che sarei incappata nella solita “bambarenata” new age (non me ne vogliano gli estimatori di Bambarén, del resto io adoro “Il Gabbiano Jonathan Livingston”). E comunque mi sbagliavo.
Iniziamo col dire che il surf non è propriamente un’attività che attragga spettatori o praticanti per la riflessione filosofica che è in grado di suscitare. Non è certo come correre o fare sci di fondo: non è che puoi metterti a ragionare sui massimi sistemi mentre stai scivolando nell’incavo di un’onda. Il surf, lo skateboarding, l’arrampicata freestyle, camminare sulla corda sono attività del qui ed ora che richiedono una concentrazione intensa. Come sosteneva Derek Hersey, il famoso free-climber scomparso durante un’arrampicata in solitaria “Non puoi permetterti di essere distratto (…). Esisti solo nel presente”.
È per questo che la gente ama il surf, perché ti fa vivere solo nel presente. Ti lasci dietro tutto e sei concentrato su poche cose essenziali, sull’onda che si avvicina, sull’appropriatezza dei movimenti per prenderla, sul momentum, talvolta sulla percezione della paura e sul controllo della paura. È questa essenzialità che ti dà piacere. È questa la malìa che cattura e trattiene il novellino come il praticante esperto. La filosofia, beh, la filosofia non fa parte del pacchetto, o no?
Frédéric Schiffter è, per sua stessa ammissione, un kook. Un quarantenne inesperto sbattuto sulla tavola dalla sua fidanzata figa. Infatti, nelle prime pagine di “Filosofia del surf”, Schiffter non resiste alla tentazione di farci sapere quanto il bikini bianco faccia risaltare la di lei abbronzatura o quanto i di lei muscoli fremano per la stanchezza. Insomma, un accademico che dalle aule universitarie si trova a incedere goffamente su un longboard per condividere la botta di vita che la sua elegante sirena gli regala.
E infatti il libro prosegue con una soporifera riflessione sul paesaggio e su come la natura amata dai surfisti non sia che un costrutto culturale e blablabla. Se ti aspetti che parli dei quadri di Friedrich con il viaggiatore di spalle davanti a immensità naturali… beh, lo fa. Bisogna avere pazienza, perché finalmente il libretto cominci a svegliarsi e ruggire di vita nella sezione “He’e nalu”, il divenire tutt’uno con l’onda degli hawaiani. Finalmente il polver… ehm… sabbioso accademico è pronto a farci davvero assaggiare la “sua” filosofia del surf e allora è tutto un inseguirsi di inaspettati richiami fra Eraclito e la saggezza pragmatica del surfista, fra la techne dei sofisti e lo stile della surfata, fra Protagora e la lettura delle onde, fra Mercurio e Duke Kahanamoku, fra la lotta disinteressata contro le onde e la sprezzatura di Castiglione, fino ad arrivare al fantastico paragone fra i cavalieri medievali contro creature mostruose e gigantesche e le “idre” sorte da depressioni artiche contro i surfisti da grandi onde, finendo ad analizzare in maniera davvero sorprendente lo slancio e la gioia del surf.
Il tutto in poche folgoranti paginette. Insomma se avete quel parente spocchioso che vi considera dei decerebrati perché smaniate solo per il surf, ecco, questo è decisamente il suo regalo di Natale, gli sigillerete la bocca per sempre e come minimo dovrà leggersi i dialoghi platonici e l’opera omnia di Aristotele prima di obiettare qualcosa verso la sacra attività dei “re della Terra”.
Se “Filosofia del surf” è un entusiastico pescare nei rimandi fra il surf e la filosofia greca, “Sul surf e lo zen” lo è fra il surf e lo zen buddista.
Diciamolo subito: è il libro che dovete portarvi in viaggio, quello da sporcare di sabbia e nella cui lettura sprofondarvi mentre vi bevete una birra dopo una session. Lo si potrebbe definire un “romanzo di formazione” con il protagonista che parte kook inesperto e pieno di velleità d’“illuminazione” (è cresciuto da due genitori intrisi di filosofia zen) e arriva uomo a quella che definirà lui stesso la sua “via di mezzo”, l’accettazione di sé che coincide, incidentalmente, con la felicità.
Non si tratta di un libretto modaiolo e furbastro che tira dentro lo zen per rendere appetibile una storiella di viaggi surfistici, ma di una vera e propria epopea di trasformazione ed evoluzione “attraverso” le onde e la filosofia zen che viene presentata fra “koan” pertinenti alle situazioni, citazioni e ricordi di maestri incontrati durante il percorso. Si tratta di un libro tutt’altro che pedante: è una storia a tratti rocambolesca, piena d’ironia e di compassione buddista, la via di un ragazzo che si snoda fra volontà monacali e “sogni d’acqua” in un’incessante inseguirsi fra la passione liquida e quella spirituale. È, insomma, una lettura avvincente.
Pare che non ci siano al momento ristampe dell’edizione del 2010 pertanto, a parte il consiglio di accaparrarsi le poche copie in circolazione, ci auguriamo che l’editore Seagatoo abbia la voglia di riproporlo al più presto.
Per completare questa piccola riflessione sugli scritti surfistico-filosofici, sarebbe interessante che qualche editore avesse voglia di tradurre e proporre al mercato italiano il saggio del professore americano, nonché valido surfista, Aaron James, “Surfing with Sartre” che promette di essere “un’investigazione acquatica” sulla pienezza dell’esistenza.