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Aloha Hawaii

di - 23/11/2020

“E Hawai’i e ku’u one hanau e
Ku’u home kulaiwi nei
‘Oli no au i na pono lani ou
E Hawai’i, aloha e”

Le Hawaii sono state considerate – e forse lo sono ancora? – la Mecca del surf, il posto dove almeno una volta nella vita bisogna recarsi in pellegrinaggio.
Un viaggio lunghissimo fin dall’altra parte del mondo, con stop over obbligatorio, un vero e proprio atto di fede.

Per quanto mi riguarda, le Hawaii sono state una folgorazione, il culmine di una passione che si è manifestata di colpo e che mi è esplosa dentro. Un’idea improvvisa, un pensiero stupendo.
Avevo cominciato a surfare seriamente da poco tempo e per un colpo di fortuna ero incappato nei fratelli Ferrari, poi diventati grandi amici: loro erano cresciuti girando il mondo e surfando in oceano, si costruivano le loro tavole, le storie che raccontavano e le foto che mi mostravano avevano lo stesso sapore degli articoli che leggevo su Surfer e Surfing, anzi, erano ancora meglio perchè mi venivano raccontate in prima persona.

Gli stavo sempre tra le palle e c’è stato un momento in cui per me erano dei veri e propri idoli: ci siamo poi frequentati moltissimo e mi piace pensare che siamo ancora ottimi amici, anche se non ci vediamo più tanto spesso.
Comunque, il surf per me è stato una grande scoperta: gli sport che avevo praticato da piccolo (arti marziali e tennis) fin lì mi avevano fatto sognare l’erba di Wimbledon o gli incontri di pugilato al Madison Square Garden, ma il surf mi stava regalando delle sensazioni “exotic and erotic“, come avrebbe detto Sandy Marton. Paradisi tropicali, Indonesia, Australia, Fiji.
Ma più di qualsiasi altro posto, le Hawaii.

Fu così che un giorno di novembre, mentre eravamo intenti a tagliare polistirolo nel basement di Pietro e Matteo, parlando di surf mi cadde la classica mela sulla testa.
Il surf, il surf… tutto ad un tratto… ma perchè non andare… alle Hawaii? Ragazzi ho deciso, vado alle Hawaii!
Ricordo che Pietro e Matteo, che non si scomponevano mai e non erano tizi per niente impressionabili, mi guardarono come se fossi impazzito.

Da giovane ero abbastanza estremo ed estremista: soprattutto non avevo nessun problema a buttarmi in una nuova avventura, così rimuginai tutto il pomeriggio sulla cosa e quando arrivai a casa ero assolutamente deciso, a cena diedi l’annuncio ai miei. Ormai avevo un solo pensiero. Vado alle Hawaii.
Caso vuole che sull’ultimo numero di Surf Latino ci fosse proprio un trafiletto su un viaggio alle Hawaii di prossima organizzazione, così chiamai il numero e parlai con un certo Alessandro Dini.

Speravo ardentemente che ci fosse ancora posto. Scambiammo due parole, mi spiegò che saremmo andati sulla North Shore in una casa privata, mi fornì i dettagli e ci accordammo per trovarci in aeroporto a Los Angeles, dove ci saremmo fermati una notte e poi avremmo proseguito alla volta di Oahu. Nessun problema, ci vediamo a Los Angeles!
I miei erano alquanto preoccupati: avevo vent’anni e non avevo mai affrontato un viaggio intercontinentale, il mio inglese era ottimo ed ero grande e grosso ma comunque avevo deciso di spararmi da solo dall’altra parte del mondo per passare due settimane con gente che non avevo mai visto, anzi, non sapevo nemmeno che faccia avessero. Cercai delle foto di Dini sulla rivista sperando di riuscire a riconoscerlo. Google non esisteva.

Detto fatto, arrivò il giorno della partenza, a Malpensa saltai sul volo per Los Angeles e dopo uno scalo a New York e 14 ore di volo mi trovai nel terminal dell’aeroporto internazionale di L.A..
Stavo camminando in un corridoio con un borsone Town&Country a tracolla (la tavola l’avrei comprata direttamente a Oahu) e la rivista con la foto di Alessandro in mano quando mi venne incontro questo tizio dall’aria simpatica con l’accento toscano:“Dario?” “Alessandro? Grande, come hai fatto a riconoscemi!” “Vieni che ti presento gli altri!”.

Così conobbi gli altri tre compagni di viaggio: andammo a dormire in un Best Western, poi la mattina seguente un giro a Redondo e Venice e via a prendere l’aereo. Non stavo più nella pelle.
Arrivati a Oahu, Alessandro noleggiò una macchina e filammo via alla volta della North Shore. Le sensazioni che provavo erano indescrivibili: Oahu, grande come un francobollo, era quanto di più lontano ci fosse da Milano, i profumi, i colori, la luce incredibile, l’oceano… una meraviglia.

Arrivammo a destinazione, sulle colline che dominano Sunset Beach: a casa di Dan Moore, un big wave rider, per scoprire che il nostro alloggio era una stanza completamente vuota – la casa non era ancora terminata – con cinque materassi buttati direttamente sul pavimento. Ok! Non che la cosa mi preoccupasse minimamente – allora non russavo! – ma comunque mi sembrava un po’ anomalo. Nel nostro gruppo c’era anche una ragazza, ma neanche lei si fece troppi problemi e comunque gli altri quattro si conoscevano già tutti.

Il giorno dopo ci svegliammo e andammo subito in esplorazione. Comprai una 6’8″ Blue Hawaii e quando arrivammo in spiaggia (in spiaggia vuol dire a Ehukai Beach, ovvero Pipeline) c’erano onde di un paio di metri che rompevano a poca distanza dalla riva e una cinquantina di persone in acqua, bambini inclusi.
Ci buttammo dopo le raccomandazioni del caso da parte di Alessandro, ma io mi guardai bene dall’andare sul picco: me ne stavo sulla spalla dell’onda, già contento di poter remare sulle pochissime onde scariche che nessuno voleva. Era impressionante, anche sulle onde più piccole, la quantità d’acqua che si muoveva.

Più tardi ci trovammo sulla spiaggia quando rischiammo di essere presi a calci in culo nel nostro primo giorno hawaiiano. Uno di noi infatti, dotato di maschera e boccaglio, era uscito dall’acqua con una bella tartaruga marina sotto braccio e la agitava tutto contento, invitandoci a fare una foto tutti insieme…
Sapete quanto veloce può correre un bagnino hawaiiano? Perchè nel giro di cinque secondi ce ne trovammo tre addosso che urlavano come pazzi mentre si formava un capannello di gente intorno a noi. Ops! Il tizio l’aveva fatta grossa e credo che solo le spiegazioni di Alessandro e il recitare la parte degli scemi in vacanza ci salvarono dall’arresto e da una sonora pedata nel sedere.

Nei giorni seguenti esplorammo diversi spot, Alessandro si fece convincere dal vicino di casa di Dan ad entrare a Sunset “piccolo” (almeno tre metri) e il giorno più divertente di tutti lo passammo a Makaha – come disse Alessandro, a prendere le onde sulla capa – senz’altro l’onda più facile e meno battuta. I pro e gli pseudo pro erano tutti spalmati tra Velzyland e Waimea, mentre a Makaha in acqua c’erano intere famiglie, donne, bambini, le onde arrivavano una dietro l’altra e si surfava anche la backwash per ritornare fuori. L’atmosfera non era aggressiva come sugli spot della North Shore e surfammo a sfinimento.

Poi le cose si fecero serie: entrò lo swell giusto e venne chiamato il Pipe Masters. Finalmente ci siamo! Nel giro di due giorni la spiaggia si popolò e tutti i campioni e i personaggi di cui fin’ora avevo solo letto o che avevo visto in video si materializzarono davanti ai nostri occhi. Non mancava nessuno, tranne, forse, Tom Curren. C’era persino Gerry Lopez!

E Tom Carroll, “Poto” Vetea David, Derek Ho, Kelly Slater, Gary “Kong” Elkerton, Martin Potter, Luke Egan, Sunny GarciaBarton Lynch, Rob Machado e Taylor Knox (che l’anno seguente ci saremmo trovati contro ai Mondiali a squadre “amatori” di Rio de Janeiro insieme a Kalani Robb… – LEGGI QUI la storia), Ross Clarke-Jones, Damien Hardman.
Insomma, il Paradiso del surf.

Un giovane e magro Sunny Garcia pronto a dare il massimo nella sua heat

Da casa di Dan si vedevano queste linee in serie arrivare dall’oceano, veramente impressionanti.
Le onde frangevano in pieno stile Pipeline e la gara fu meravigliosa: il Pipe Masters aveva ancora la sua funzione di ultima gara del tour e la sensazione di poter vedere dal vivo la chiusura del mondiale professionisti fu indescrivibile, una vera festa per tutti.

Ciliegina sulla torta, una sera scoprimmo di avere ospiti a cena: Dan Moore (che più tardi, nell’epoca tow-in ancora di là da venire avrebbe guidato il jet ski proprio per Ross Clarke Jones) aveva invitato niente meno che Ross con la moglie e il loro figlio appena nato, insieme ad un loro amico di cui non rammento più il nome. Fu una serata pazzesca, non ricordo assolutamente niente, ero completamente ipnotizzato da Ross e dai suoi racconti, nonchè dal culo di potermi trovare seduto allo stesso tavolo.

Il Pipe Masters quell’anno lo vinse Derek Ho davanti a Kelly Slater, facemmo in tempo a vedere la finale e poi tornammo a casa. Fu un’esperienza veramente indimenticabile: ci sarei tornato altre volte negli anni seguenti – da solo – con altrettante esperienze da raccontare, ma come si dice… la prima volta non si scorda mai.

Aloha, Hawaii.

Mammifero di sesso maschile della specie "homo sapiens", sottospecie "goofy foot" (ricordiamo che i goofy sono stati creati dalla scintilla divina, mentre i regular discendono per linea evolutiva dalle scimmie). Esploratore entusiasta classe 1972, ho iniziato a fare surf verso la fine degli anni 80 e ho avuto la fortuna di conoscere delle persone straordinarie e di condividere con loro parecchie esperienze dentro e fuori dall'acqua. Ho un approccio multidisciplinare con tantissimi interessi diversi: vivo a Milano (non ridete) dopo diversi anni passati all'estero come manager di aziende italiane e mi occupo tutt'ora di direzione aziendale. Scrivo di design, altra passione che si unisce alla professione, e da poco grazie ad una "sliding door" anche di surf. A volte prendo dentro, e me ne scuso, ma si vive una volta sola, se vi offenderò non ci sarà niente di personale.