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Il dito di Dio

di - 26/10/2023

È la prima cosa che ci viene in mente per descrivere la Corsica, una sorta di sineddoche geografica: Cap Corse è la parte per il tutto.
Nel nostro primo viaggio sull’isola, a causa del tempo e del meteo, non eravamo riusciti che a sfiorarlo, ma questa seconda volta gli abbiamo dedicato il tempo che merita.

Cap Corse è una dorsale rocciosa adagiata sul mare, dolce a Est, arcigna a Ovest, una regione ricca di storia e battuta dal vento e dalle tempeste. La gente di qui lo chiama semplicemente Cap, ma gli antenati erano più teatrali e lo chiamavano anche il Dito di Dio. Anche se le sue dimensioni sono solo 40 km di lunghezza per 12 di larghezza e ha una popolazione stanziale di 5.000 anime suddivisa in una ventina di comuni e altrettanti piccoli porti. Cap Corse è un paese nel Paese.
Non bisogna però lasciarsi fuorviare dalle cartine geografiche perché, quando lo si esplora, questo piccolo territorio si rivela un universo fatto di tanti mondi differenti fra loro.

Un insieme di mondi

Cap Corse è una montagna nel mare. La sua vetta, Monte Stello, tocca i 1.300 metri, e tutta la dorsale è percorsa da fiumi e torrenti che, in ogni stagione, portano la loro acqua al mare, sui litorali dove si alternano spiagge, scogliere ripide, piccole calette, grandi insenature, paludi, rocce, grotte e isolotti.
Lo abbiamo detto prima che Cap è un insieme di mondi e le sue tre coste ne sono la prova. Quella orientale, che guarda verso il Mar Tirreno e le isole dell’Arcipelago Toscano, è aperta, ha sponde non molto alte ed è amica di tutti i marinai, che in queste acque profonde trovano riparo dalle potenti raffiche di Libeccio.
La costa settentrionale, rivolta verso il Golfo di Genova, si unisce al mare in un abbraccio più dolce, che ha il colore della sabbia e il disegno delle dune. E regala una sorpresa, riaffiorando 2 km più avanti come un’enorme pralina, come il punto su una “i”. È la meravigliosa isola della Giraglia, tutta di serpentino verde, sormontata da una torre maestosa e uno dei fari più belli del Mediterraneo, che guida le barche e anche gli uccelli migratori, che qui fanno brevi scali.
La costa occidentale di Cap Corse, quella che guarda al largo nel Mediterraneo, il deserto delle Agriates e il golfo di Saint-Florent, è battuta da venti e tempeste. È alta, scoscesa, tormentata, frastagliata e costellata di picchi vertiginosi. I villaggi di questo mondo sono abbarbicati e sembrano fare da sentinella, con le loro torri, i campanili, le case alte. Non è da tutti vivere qui…

Marinai e contadini nello stesso tempo

Per comprendere la varietà di questo territorio, si pensi anche che esiste un Cap della riva e un Cap dell’interno (fa strano parlare di interno, quando nessun punto di questa terra è a più di 6 km dal mare, visibile ovunque, in qualsiasi momento). Nel passato i due Cap erano abitati dalle stesse persone, che erano al contempo marinai e contadini: gli abitanti del villaggio, capitani, armatori, marinai o pescatori, lasciavano le loro barche in porto e si spostavano verso l’interno per raccogliere le loro olive, potare le loro viti, vendemmiare, allevare bestiame. Poi riprendevano il mare per pescare tonno, acciughe, aragoste e per andare a vendere vino, legno e pesce sulle rive della Toscana o della Liguria.
Solo di recente è avvenuta una specializzazione delle attività a dei mestieri e oggi i Cap Corsini sono diventati gente di mare, agricoltori, minatori, artigiani, commercianti. Oppure sono migrati in terre lontane.
Un tempo, i fianchi delle colline e le valli erano accuratamente coltivati e i raccolti di Cap Corse superavano di gran lunga il consumo locale. E quello che oggi è il deserto dell’Agriates fu a lungo l’Ager, cioè il campo di grano di Cap.
Ma non è tutto. Questo promontorio sacro, ricco di foreste, terrazze artificiali e coltivazioni, aveva un sottosuolo ricco di tesori dalle forme di marmi e serpentini. Erano terre ricche e vitali: questo dito di roccia conta, da solo, 32 torri genovesi, quasi 20 conventi, una ventina di chiese romaniche o barocche, più di 30 cappelle, palazzi, castelli, mausolei, mulini e fontane. La sola chiesa di Canari ha al suo interno quindici oggetti classificati monumento storico, ovvero 1 per 20 abitanti, più di 100 volte la media nazionale francese. Ecco perché Cap Corse vale da solo il viaggio, che in bici è ancora più bello.

Foto: Martina Folco Zambelli | HLMPHOTO

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Mi piacciono le biciclette, tutte, e mi piace pedalare. Mi piace ascoltare le belle storie di uomini e di bici, e ogni tanto raccontarne qualcuna. L'amore è nato sulla sabbia, con le biglie di Bitossi e De Vlaeminck ed è maturato sui sentieri del Mottarone in sella a una Specialized Rockhopper, rossa e rigida. Avevo appena cominciato a scrivere di neve quando rimasi folgorato da quelle bici reazionarie con le ruote tassellate, i manubri larghi e i nomi americani. Da quel momento in poi fu solo Mountain Bike, e divenne anche il mio lavoro. Un lavoro bellissimo, che culminò con la direzione di Tutto MTB. A quei tempi era la Bibbia. Dopo un po' di anni la vita e la penna parlarono di altro, ma il cuore rimase sempre sui pedali. Le mountain bike diventarono front, full, in alluminio, in carbonio, le ruote si ingrandirono e le escursioni aumentarono, e io maturavo come loro. Cominciai a frequentare anche l'asfalto, scettico ma curioso. Iscrivendomi alle gare per pedalare senza le auto a fare paura. Poi, finalmente arrivò il Gravel, un meraviglioso dejavu, un tuffo nelle vecchie emozioni. La vita e la penna nel frattempo erano tornate a parlare di pedali: il cerchio si era meravigliosamente chiuso.