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Out of Office – Mentawai, a caccia dell’immaginario

di - 18/10/2025

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Testo di: Marco Bucalossi | @marc_buca

Analog Photos: Marco Bucalossi @marc_buca | Others Ph: Wave Hunter Surf Charters @wavehuntermentawai |

Qual è il surf trip definitivo? Ognuno può avere la sua preferenza, chiaramente, ma sono abbastanza sicuro che il 99% dei surfisti nel mondo direbbe la stessa cosa: un boat trip, un surf trip in barca.
C’è qualcosa di unico e speciale nell’esplorare onde in mezzo al nulla, circondati solamente dall’oceano. Per definizione è l’esperienza surfistica più immersiva e intensa. Tutti noi surfisti abbiamo sognato almeno una volta di svegliarci a bordo di una barca in mezzo al blu, circondati dai nostri migliori amici, e con un’onda perfetta a rompere fuori dall’oblò. Il nostro immaginario collettivo si è arricchito ancor di più con quei video dei Pro che si lanciano da barche arrangiate alla meno peggio per poi surfare onde tubanti tanto perfette da non sembrare reali, e per lo più in line-up completamente deserte.

Ovviamente oggi i tempi sono cambiati, c’è molto più traffico in mare ed esplorare onde epiche in solitudine o con pochi amici a bordo di un’imbarcazione è quasi impossibile. Quasi, appunto.
Nonostante le decine di surf charter, negli arcipelaghi più famosi, come le Maldive e le Mentawai, vi dico che si può ancora vivere quell’immaginario, quelle immagini che abbiamo visto e rivisto nei film di surf degli anni 2000.
Bisogna solo avere culo, il che include voglia di esplorare, un buon capitano, condizioni giuste al momento opportuno, e coraggio o disponibilità a sbagliare e sprecare centinaia o migliaia di euro in un flop.

Questo è un breve racconto del mio primo boat trip nelle Mentawai, dove ho potuto vivere in prima persona la realtà di fare questo tipo di esperienza nell’arcipelago più famoso al mondo per il surf, con tutti i suoi aspetti positivi e negativi.

Io e i miei amici più stretti avevamo sempre bazzicato l’idea di fare un boat trip. Spesso con quell’intenzione semi scherzosa, tipo “quando facciamo i trenta organizziamo un bel giro in barca alle Maldive” oppure “quest’anno mi licenzio e facciamo un giro alle Mentawai per festeggiare”. Ma negli ultimi anni, mai nessuno aveva preso effettivamente l’iniziativa di organizzare tale trip. Motivo principale: soldi e logistica.
Probabilmente il boat trip è il surf trip più epico quanto più costoso che si possa fare. In cima al costo si aggiunge anche la logistica, spesso complessa. Voli, transfer, notti in hotel prima dell’imbarco, maltempo che ritarda la partenza, eccetera eccetera.
Per potersi godere dieci giorni di surf in mezzo all’oceano, alla fine dei conti servono denaro e tempo, e spesso mancavano entrambi.
Ciò nonostante, una serie di eventi ha fatto sì che nel giugno 2024 i pianeti si allineassero per finalmente farci salire a bordo di un surf charter, senza nemmeno molta pianificazione.

@marcpiwko (sx) e @fernandism0 (dx)

Partendo dal principio, è maggio: io, Alejandro, Seppi e Fernando siamo già tutti a Bali con l’intenzione di passare l’intera stagione secca (la nostra estate) in Indonesia, surfare il più possibile durante le swell e goderci il lifestyle tropicale per il resto del tempo.

Io sono appena tornato da un paio di settimane a Lakey Peak, e già non vedevo l’ora di andarmene ancora una volta in qualche luogo remoto per surfare-mangiare-dormire e basta. Alejandro e Seppi pure erano appena tornati da una grande swell a G-Land, dove avevano iniziato la stagione con un’overdose di adrenalina.
Fernando invece era appena arrivato dalla Spagna e non voleva perdere troppo tempo tra i café e le feste dell’isola degli dei. Non ricordo chi esplicitò l’idea, ma ricordo che dopo una colazione tutti assieme, era deciso. Questa stagione saremmo andati alle Mentawai, in un modo o nell’altro.

Dato che eravamo flessibili per quanto riguarda la calendarizzazione, il piano era scrivere direttamente a diversi camp, resort e charter, e vedere se potevamo strappare uno sconto o una promozione dell’ultimo minuto. Specialmente per quanto riguarda le imbarcazioni, i surf charter: il modo in cui operano è tramite riserve con largo anticipo in specifiche settimane dell’anno. Spesso accade però che una, due o perfino tre settimane durante la stagione non vengano prenotate in anticipo. Di conseguenza, i charter spesso offrono sconti per attrarre viaggiatori individuali e riempire la barca, in modo da non perdere una settimana di ricavi.

Mi presi carico personalmente di messaggiare con qualsiasi business operante nelle Mentawai, chiedendo se ci fossero settimane vuote dove avrebbero potuto offrirci uno sconto. Tra una chat e l’altra, riuscimmo a chiudere un affare con la WaveHunter, capitanata da Marco, un brasiliano con anni e anni di esperienza sulle spalle, che ha dedicato la sua vita al surf e all’arcipelago indonesiano.
Non vado nello specifico sui prezzi, ma dato che avevano una decina di giorni a giugno completamente vuoti, riuscimmo a ottenere quasi il 30% di sconto sul prezzo originale! E a quanto pare l’imbarcazione era vuota, il che voleva dire che avremmo avuto più spazio per noi. Considerate che eravamo in quattro e di solito queste imbarcazioni possono ospitare fino a dodici-quindici surfisti per trip, quindi ci andava di lusso.
Dopo neanche due settimane, avevamo già le tavole impacchettate e stavamo volando per Padang, dove la WaveHunter ci aspettava in porto.

Dato che eravamo a Bali, penserete che il viaggio per le Mentawai non sia così lungo o complesso. Sbagliato.
Volammo da Bali fino a Jakarta, da Jakarta fino a Padang, ma purtroppo beccammo una tempesta in volo che ci costrinse ad atterrare a Medan, molto più a nord di Padang. Solo dopo una pausa di un paio d’ore sulla pista di Medan riuscimmo finalmente a volare per Padang. Lì ci aspettava un autista che si prese carico di portare le tavole direttamente all’imbarcazione, mentre noi avremmo passato la prima notte in un hotel in zona.
La mattina dopo, mentre Alejandro e Seppi lavoravano con i loro laptop nella lobby, venimmo a conoscenza che ci sarebbero stati altri due surfisti ad aggiungersi al nostro gruppo. Sotto sotto un po’ scocciati che non avremmo avuto la barca tutta per noi, facemmo conoscenza con Gabriel, brasiliano in cerca di tubi sinistri, e Romain, svizzero francese, coach dell’Alaia Bay in vacanza last minute.

Dopo una lenta mattinata in hotel, finalmente ci vennero a prendere per imbarcarci. Come arriviamo al porto, notiamo come la barca sia molto più piccola di quello che pareva nelle foto e nei video.
Grazie a Dio siamo solo in sei invece di quindici! Ma non importa più di tanto: alla vista della mappa delle Mentawai con tutti i surf spot che avremmo esplorato appesa sulla porta d’entrata, e la TV dove avremmo guardato tutti i nostri video della giornata, l’eccitazione, o meglio, l’anticipazione di un trip epico era alle stelle.

Facciamo conoscenza con l’equipaggio, un gruppo di giovani indonesiani di Sumatra, e con il capitano, Marco, il quale si rivelò super simpatico e alla mano fin dal primo momento, spiegandoci chiaro e tondo le regole da seguire a bordo, come funziona il viaggio e, cosa più importante, il piano del trip, o meglio, le onde che avremmo surfato nei prossimi giorni in accordo con le previsioni.
Ci pareva di sentire la scaletta di un surf movie:

  • giorno uno: HT, Hollow Tree o Lance’s Right, destra perfetta con sezione tubante sopra quello che chiamano il Surgeon Table (vi lascio immaginare il perché);
  • giorno due e tre: Macaronis, la sinistra più divertente e rippabile del pianeta;
  • giorno quattro e cinque: Rag’s Right, Roxie’s (destre pazzesche) o Greenbush (sinistra tubante pesantissima);
  • giorno sei-dieci: probabilmente confinati a Thunders, unica onda che piglia swell nei giorni più piccoli, e magari un altro stop a Macaronis.

Alejandro e Fer erano già adrenalinici, essendo entrambi tube riders di una certa esperienza, mentre io e Seppi ci guardiamo e ridiamo nervosi, sapendo che nei prossimi giorni ci saremmo riempiti di botte e tagli da reef. Stanchi dal viaggio, ma eccitatissimi per i giorni a venire, vogliamo solo salpare, c***o.

Tra Padang e le Ments c’è di mezzo un’attraversata di otto ore, approssimativamente. Salpando il pomeriggio, saremmo arrivati nella baia di HT nella notte e ci saremmo svegliati all’alba in pole position, di fronte a una delle onde migliori del mondo.
Passammo il tempo contemplando la costa sumatrese, facendo conoscenza con i nostri compagni di viaggio e con Marco, raccontandoci le nostre storie e come eravamo finiti tutti in Indonesia diventando dei veri e propri tossici del surf. Quando due surfisti sconosciuti si incontrano e si rendono conto di avere tale passione in comune, connettono molto più facilmente e la conversazione si porta avanti da sola, semplicemente menzionando i nomi dei luoghi viaggiati e surfati o il modello dell’ultima tavola comprata.

Ci godemmo il tramonto con lattine di birra fresca, le quali avevamo in quantità limitata, guardando il sole calare e filmando i delfini che gareggiavano con la prua della nostra imbarcazione. Già solo dopo poche ore di navigazione eravamo in territorio selvaggio, dove la natura regna sovrana, nonostante i numerosi pescatori locali e le imbarcazioni di surfisti all’esplorazione dell’arcipelago indonesiano, lontano dalla civiltà di Sumatra. Che spettacolo. Ci godemmo anche la prima cena del cuoco di bordo. Una cosa era certa: non avremmo patito la fame. Dosi abbondanti e piatti saporiti, dai tipici curry locali fino addirittura alla lasagna. Per non contare la quantità di pane e Nutella che avevamo a disposizione e della quale facemmo ovviamente abuso.
Dopodiché, ognuno si prese la propria cuccetta in cambusa, nella parte inferiore dell’imbarcazione. Tutti assieme in una camerata, ognuno nel proprio micro scompartimento, come dei veri pirati (più o meno).

Ci svegliammo tutti ben in anticipo rispetto all’alba, probabilmente per via del tipico nervosismo che ci prende durante la notte prima di un grande giorno, sia esso una presentazione da fare davanti alla classe, un meeting importante con un cliente, o una surf session in condizioni impegnative dove potresti prendere il tubo della tua vita o il wipeout che pone fine ad essa.
Quel tipo di nervosismo.
Mi recai sul ponte per vedere la situazione. Fernando era già più che sveglio, sorseggiando un caffè americano mentre guardava le onde frangersi a poche decine di metri da noi.
HT era come lo si vede nei video su YouTube: set solidi che entrano nella baia, big take off, roll-in, e sopra il famigerato Surgeon Table, wraaaaa, apre un tubone quadrato. Puffff, spit nel canale. Poche persone in acqua, ma già qualche “charger” remava per il picco. Fernando si butta subito in acqua, senza dire niente a nessuno. Noi altri prepariamo le tavole lunghe, le step-up, per poterci infilare in queste onde con un po’ più di confidenza e facilità.
Io tiro fuori pure l’elmetto. Il surf trip definitivo inizia ora.

HT è un’onda perfetta, rompe come le onde che si disegnano nei quaderni quando si è ragazzini. Ma quando la swell è sopra i 6ft, la gente del resort sulla spiaggia di fronte rema fuori, e i gruppi delle altre imbarcazioni si svegliano, bhe, la situazione diventa rapidamente intensa e competitiva. Pure Fernando e Alejandro faticavano a prendere un’onda degna di nota, per lo più sempre troppo profondi nel tubo o troppo davanti.

Marco ci fece un bel clinic, mostrandoci come anni di esperienza su tali onde facciano la differenza. Remò fuori con noi per sedersi in cima al picco, aspettando semplicemente l’onda più grossa del giorno e, quando arrivò… sbam: tubo del giorno. Come fu sputato fuori nel canale, remò verso la WaveHunter per la colazione.

Per quanto riguarda il sottoscritto, non lo nego, non ero a mio agio per niente. Per quanto l’onda sembrasse perfetta, in backside (essendo goofy dovevo surfare di spalle) non era facile scegliere quella giusta, specialmente pensando che avrei dovuto settare la linea e fare uno stall nella seconda sezione, sotto il double-up.
Però, quando i tuoi compagni ti gridano di andare, non hai scelta: devi andare. Lo fai più per loro che per te.
È come se tutti i freni inibitori e l’istinto di sopravvivenza scomparissero in un istante. All’improvviso il tuo migliore amico ti dice “Go, go, go!” e non hai più dubbi, ti butti. Purtroppo, tutti i miei tentativi finirono con il lip dell’onda che mi si rompeva sulla testa.

In compenso, mi riempii i piedi e le gambe di tagli ogni volta che finivo sul Surgeon Table. Meglio i piedi della faccia, mi dicevo tra me e me, remando di ritorno verso la sicurezza del canale. Nel pomeriggio facemmo un altro tentativo, ma con risultati simili. E per lo più, la swell iniziò a crescere e crescere fino al punto in cui decidemmo che fosse meglio guardare i pro mettersi nelle bombe dalla barca, invece di rischiare di terminare il trip già il primo giorno.
E onestamente, alcuni californiani vloggers, tra cui Zeke e Tosh Tudor, ci diedero uno show da ricordare per sempre. Tubi giganti, a pochi metri da noi: era come guardare un surf movie, ma live.

Come la luce del sole si fece più calda, levammo l’ancora e iniziammo un’altra attraversata, stavolta più breve, verso sud, per raggiungere la nostra prossima tappa: Macaronis.

I successivi due giorni furono una palestra di surf. Macaronis è l’onda più ambita delle Mentawai Sud per un motivo semplice: è una macchina. Funziona sempre, non importa se è glassy, se ha vento offshore o onshore, lavora con poca swell e regge la misura tranquillamente fino a 8–10 ft. Super consistente.

Una sinistra che inizia a srotolarsi su un reef secco con una breve sezione tubante piuttosto hollow/scavata, per poi aprirsi in una parete costantemente verticale che permette di effettuare tre, quattro, se non addirittura sei o sette manovre in un’unica onda, con sezioni per carve e re-entry.
Il paradiso della shortboard, specialmente per i goofy.
Il suo lato oscuro è l’essere un’onda semi-privatizzata dal resort che risiede nella laguna dell’isola di Pagai-Utara. Solo un paio di imbarcazioni possono ancorare per un massimo di due giorni consecutivi nel canale.
Le altre tendono a passare la notte nella baia per poi ancorare e far surfare i propri ospiti per un paio d’ore all’alba, prima delle nove, quando i militari di stanza sull’isola, e pagati dal resort, vengono fuori per letteralmente cacciare dall’acqua chiunque non sia ospite del resort o delle imbarcazioni che hanno prenotato lo spot nel canale.

Di conseguenza, le prime ore di luce del giorno sono solitamente anche le più affollate, mentre la tarda mattinata rimane il periodo della giornata con le onde di maggior qualità e meno gente. Nel pomeriggio entra solitamente una leggera brezza, che rende l’onda un po’ più mossa, ma pur sempre super rippabile e manovrabile.
E ovviamente molta meno gente: a volte solo una decina di persone in acqua, dato che la maggior parte è già surfed-out dalla mattinata.

Per due giorni surfammo tre volte al giorno: sessioni di due ore, pausa cibo di un’ora o poco più, e video analisi alla sera prima di andare a letto presto. O almeno il sottoscritto si metteva a letto presto, mentre i miei tre amici si connettevano tramite lo Starlink della barca per lavorare online fino alle undici o dodici di notte.

Lo Stralink funzionava solo quando eravamo ancorati, costringendo chi doveva lavorare ad approfittare delle ore notturne per non farsi licenziare. I giorni a Macaronis furono una vera e propria palestra del surf. Ognuno di noi praticava e migliorava manovre sessione dopo sessione.
Fernando riuscì pure a prendersi un paio di tubi nella prima sezione, aspettando pazientemente anche per 20–30 minuti tra i brasiliani di mezza età che avevano “conquistato” il picco in quei giorni. A parte quella specie di “wolf pack”, il resto della folla era piuttosto tranquilla.

C’erano onde per tutti, e devo dire che rispetto a tanti altri posti in giro per il mondo, nelle Mentawai la folla in acqua era sempre ordinata, come se ognuno rispettasse l’eguaglianza tra noi turisti: tutti in viaggio nello stesso modo, nello stesso luogo, e spesso pure spendendo le stesse cifre da capogiro per poter essere lì, in mezzo al nulla, a surfare onde da sogno.

A differenza di Bali, dove per tutti i mesi estivi, o meglio, i mesi della stagione secca, soffia un vento da sud-est costante che regala condizioni offshore in tutte le onde principali del Bukit, nelle Ments le condizioni cambiano spesso e rapidamente: il vento ruota in continuazione, e avere un capitano che conosce dove andare con ogni condizione è cruciale per potersi godere il trip a pieno.

Marco era il miglior capitano che potevamo sperare di avere. Non solo conosceva bene tutti i brasiliani in acqua, rendendoceli molto più amichevoli di quel che sarebbero stati con noi altrimenti, ma conosceva benissimo anche l’arcipelago indonesiano e sapeva sempre dove avremmo avuto più possibilità di “scoring”.

Il quarto giorno controllammo rapidamente la leggendaria Greenbush, ma per una questione di marea, vento non giusto, e direzione della swell non ottimale, decidemmo che non valeva il rischio di finire sul reef tagliente per un’onda non all’altezza del suo nome. Marco ci portò così verso un’onda meno battuta della zona sud delle Ments: uno slab destro “secret”.
La WaveHunter doveva ancorare a una certa distanza e, osservando da lontano, l’onda pareva funzionare: vento offshore, condizioni ottime, ma difficile capire la misura. E non c’era nessuno in acqua, solo la nostra imbarcazione nel canale. Quando raggiungemmo il picco con le imbarcazioni da supporto, dei mini motoscafini che ci portavamo al traino per tutto il viaggio, capimmo il perché.

Quest’onda semi-segreta è uno slab che rompe in acqua profonda: l’onda arriva con tutta la forza dell’oceano vicino alla costa per frangersi all’improvviso e aprire un tubone spesso, ma breve. Un’onda da backdoor (che puoi prendere solamente da dietro al picco, per infilarti dentro e uscire dall’altro lato). Non solo tecnica, ma anche terrificante.
Questa era la sfida che i più talentuosi del gruppo stavano aspettando. Alejandro e Fernando si lanciavano a turno giù da questa montagna verticale, a volte uscendo dall’altro lato gridando di gioia e adrenalina, altre volte volando di faccia verso il fondale. Nel mentre, io e Seppi stavamo seduti sulla spalla dell’onda, incerti se buttarci in quelle intermedie.
Ma come ad HT, quando i tuoi amici ti gridano di andare, ti tocca andare. Seppi riuscì a prendere qualcosa, mentre io mi ritrovai a prendere qualche lip in testa prima di tornare all’imbarcazione sconfitto.

Il gruppo al completo, presente anche Marco, il capitando della barca (el pistolero)

Quella notte fu una notte di celebrazioni. Nessuno aprì il laptop per lavorare, ma aprimmo diverse birre, guardando la luna piena in mezzo all’oceano, e riguardando le foto epiche che Alejandro e gli altri riuscirono a ottenere quel giorno. Non nego che la mia birra fosse un po’ dolce-amara, dato che non avevo preso nessuna onda memorabile come i miei amici. Ma non fa niente, avevo ancora molto da apprendere, e solo essere là fuori, in un’onda del genere, e tornare a casa con tutti gli arti attaccati era già un risultato.
Aprii un altro paio di birre.

I due giorni successivi furono i giorni delle destre. Dopo esserci riscaldati per bene nello slab del giorno precedente, tentammo di surfare la più conosciuta Rag’s Right: una destra veloce e tubante, ma perfetta. Unica pecca: tutti avevano avuto la stessa idea, e la folla di diversi charter non aiutava ad avere una buona possibilità di prendere un’onda buona.

Dopo una breve sessione con poche onde per ciascuno, la marea iniziò ad essere un po’ troppo bassa e ci spostammo a Roxies, un’altra destra, più facile e manovrabile, ma anche più protetta.
Surfammo così condizioni ben più piccole rispetto ai giorni passati, ma fu un’ottima pausa dalle sessioni adrenaliniche negli altri spot tubanti.

Potevamo rilassarci, chiacchierare e scherzare tra un’onda e l’altra, droppandoci l’un l’altro. La routine non cambiava: cercavamo di massimizzare le ore in acqua nonostante le condizioni non ottimali per le Ments,  swell in decrescita, vento che ruotava ogni giorno. Chi lavorava, lavorava la notte. Video analisi ogni sera. Mangiate sproporzionate a qualsiasi ora della giornata. E per il resto facevamo passare il tempo guardando vecchi film sulla TV nella cabina principale, giocando a carte o semplicemente guardando il mare da in cima alla barca, contemplando.

Eravamo già a metà del nostro viaggio e dovevamo fare rifornimento di gas e viveri al porto più vicino, su una delle isole in mezzo alle Mentawai: Sikakap.
Fummo costretti a stare asciutti tutto il giorno, dato che non eravamo particolarmente vicini alla destinazione e dovemmo navigare mezza giornata per arrivare al villaggio portuale. Mentre Marco e l’equipaggio organizzavano i rifornimenti e gestivano altre discussioni con le autorità locali, io, Alejandro e Gabriel decidemmo di scendere a terra, per la prima volta in quasi una settimana, per fare due passi ed esplorare il villaggio.

Fuori dagli spot surfistici e dai resort, qui potemmo vedere la vera Indonesia, le vere Mentawai. Fui stupito da quanto un piccolo villaggio su un’isola in mezzo al nulla dell’Oceano Indiano potesse essere tanto caotico. Moto, motorini, api e mini furgoni che facevano avanti e indietro, lasciando a malapena lo spazio ai pedoni. Centinaia di persone nel mentre camminavano ai bordi della strada o in mezzo, facendo zig zag tra i veicoli mezzi fermi, passando tra negozi e mini mercati.
Eravamo senza dubbio gli unici bianchi in circolazione, e le persone del luogo non esitavano a farci notare che eravamo in effetti i “bule” (stranieri, in indonesiano). Eravamo come alieni arrivati da un altro pianeta: ci osservavano, parlavano di noi tra loro, “bule” di qui, “bule” di là, i bambini strillavano e ci salutavano con il tipico “Hey Mister!”.

Non era chiaro se fossimo effettivamente i benvenuti, ma tutto sommato non riscontrammo problemi. Tenemmo il nostro profilo basso, per quanto potessimo, dato le nostre caratteristiche fisiche, e continuammo la nostra esplorazione.

Ho sempre trovato una sorta di piacere nel sentirmi a disagio in una terra e in una popolazione non propria. Ti conferisce uno stato di umiltà e rispetto che, perlomeno in Europa, è praticamente impossibile sperimentare. Ti si aprono gli occhi su come uno possa sentirsi quando cambia paese o continente, senza sapere la lingua, circondato da gente che a primo impatto vede solo il colore della tua pelle e la forma dei tuoi occhi. E non c’è niente che puoi fare a riguardo, solo rimanere rispettoso e aperto.

E così facendo, anche i locali si aprono e si dimostrano più cordiali di quanto mai avresti immaginato quando ti chiamavano “bule” al primo incontro.

Durante gli ultimi giorni del viaggio la swell divenne molto più piccola rispetto all’inizio. Quando manca energia nelle Mentawai, si riduce notevolmente il numero di spot surfabili, lasciando poche opzioni ai surfisti in zona, sia che essi dormano nei camp sulle isole, sia che siano imbarcati su uno dei tanti charter, come noi.

Avevamo due alternative: andare a nord, nella zona chiamata Playground, dove avremmo avuto diverse opzioni ma molta più gente in acqua, dato il maggior numero di camp e resort nell’area; oppure rimanere al sud, dove eravamo, e ancorare allo spot chiamato Thunders, dove avremmo trovato sinistre facili e divertenti, magari un tubino occasionale, e solamente la gente delle barche, che comunque voleva dire condividere la line-up di un solo spot con trenta o quaranta persone minimo.
Per ridurre i tempi di navigazione e evitare un flop dal punto di vista logistico, optammo per rimanere al sud e fare base nel canale di Thunders. Come il capitano aveva predetto, tutti avevano avuto lo stesso piano, e cinque o sei imbarcazioni erano pronte ad ancorarsi allo stesso tempo del nostro arrivo.

Thunders non è l’onda più conosciuta delle Ments, ma è una delle principali swell-magnet, ovvero una di quelle poche onde in zona più esposte alle swell, garantendo condizioni surfabili anche nei giorni più piccoli.
Mentre a Macaronis o Rag’s Right c’era quasi piatta assoluta, a Thunders potevamo surfare sinistre di un metro o poco più, con ottime pareti per provare manovre e occasionalmente micro tubi nella prima e ultima sezione.

Questa si rivelò essere molto più secca di quello che sembrava a prima vista, costringendoci a fare attenzione e spesso “kickare” fuori dall’onda all’ultimo secondo per evitare di finire sul reef. Ciò nonostante, l’onda era molto più facile e user-friendly delle onde tubanti e adrenaliniche dei giorni precedenti, concedendoci di rilassarci, chiacchierare con la gente in acqua, e semplicemente goderci le surfate senza preoccuparci di prendere un set in testa e finire a rotolare sui coralli.

Anche il fattore folla non era poi così male. Il fatto che l’onda funzionasse tutto il giorno, con qualsiasi marea, permetteva alla gente di distribuirsi durante la giornata, così che alla fine non c’erano mai più di venti o trenta persone in acqua, nonostante le ben più numerose charter ancorate nel canale.
Considerate che ogni imbarcazione poteva avere fino a quindici ospiti, contando otto imbarcazioni, vi lascio fare la matematica. Ovviamente, come in ogni spot affollato, non mancarono discussioni, specialmente tra il nostro brasiliano dal sangue caldo, Gabriel, e alcuni pro francesi che non esitavano a “snakeare” (girare intorno alla folla per saltare la coda del proprio turno) per prendere le onde migliori.
Il nostro Gabriel era disposto a droppare in testa a chiunque non si comportasse, pro o non pro, riportando la line-up all’ordine, più o meno.

Solamente un giorno le onde erano talmente piccole che nessuno del nostro gruppo pensò valesse la pena rimanere seduti in mezzo a un gruppo di persone in acqua per surfare un’onda di manco mezzo metro. Ci prendemmo la giornata per rilassarci e goderci il fatto di essere in mezzo al nulla tra isole tropicali.
Ci tagliammo a vicenda capelli e barba in poppa alla barca, tra le risate dell’equipaggio che ci prendeva in giro per i nostri metodi di beauty routine, con l’obiettivo di metterci in ordine per il nostro ritorno a Bali e sembrare meno la versione cresciuta di Mowgli.

Dopodiché prendemmo le tavole e andammo per una remata fino all’isola più vicina: esplorammo una spiaggia in una piccola baia che sembrava uscita da una pubblicità di qualche resort nei tropici. Acqua talmente cristallina che si poteva ammirare il reef e la sabbia sottostante senza bisogno di maschera; palme sulla spiaggia, sabbia bianca come borotalco, e nemmeno un’anima, se non le altre imbarcazioni ancorate al largo.

Da sinistra: Marco (autore dell’articolo), Fernando, Seppi e Alejandro (@marcpiwko)

Nel frattempo, Gabriel si era armato di fiocina ed era andato a procurarci la cena, mentre Marco si era rintanato nella sua cabina a dormire e guardare serie su Netflix. D’altronde, per il capitano era finalmente un giorno di riposo.

Avere così tanti charter ancorati allo stesso spot non era il massimo dal punto di vista surfistico, però creava una sorta di ambiente sociale acquatico più coinvolgente e meno distaccato del solito.
La WaveHunter era una delle poche imbarcazioni con uno Starlink, e di conseguenza, mentre remavamo di ritorno alla nostra barca, alcune ragazze da un’altra barca iniziarono a fare le simpatiche chiedendoci la password per connettersi al mondo esterno. In cambio ci offrirono birre extra, una valuta non poco importante nelle Ments, dato che ogni imbarcazione aveva un numero limitato di provviste, specialmente birre e bevande alcoliche.

Purtroppo per loro, il nostro gruppo non era composto da australiani assetati, e avevamo già più birre di quelle che avremmo mai bevuto. Inoltre, Seppi e Alejandro non volevano compromettere la velocità della connessione durante le loro videochiamate. Carine e simpatiche, ma no, niente scambio.

Allo stesso tempo, con la luce del tramonto a farsi più scura e la temperatura a rinfrescarsi, la gente iniziava a salire sui ponti delle loro imbarcazioni, aprendo lattine di birra, alzando il volume delle casse musicali portatili e in qualche modo creando la loro mini festa di fine viaggio.
C’era chi saltava in acqua, chi prendeva i dinghy (piccole imbarcazioni di supporto) per raggiungere le altre imbarcazioni con la musica più alta o il bar più rifornito, e chi, come noi, semplicemente si rilassava ammirando l’ultimo tramonto alle Mentawai, facendo piani per la serata che avremmo fatto a Bali una volta ritornati. Eravamo sotto sotto surfed-out, ma ovviamente super contenti e soddisfatti.
Eravamo in Waterworld (sì, il film con Kevin Costner), un mondo di onde ed “esploratori”, tutti riuniti nella stessa baia come mercanti (o pirati) in viaggio, tutti assieme nello stesso posto per un unico motivo: il surf. Ed era una figata, esattamente come avevamo sempre sognato negli anni passati.

Un ringraziamento speciale a SPY Optics per averci fornito protezione per i nostri preziosi occhi, specialmente sotto il sole cuocente e accecante delle Mentawai. Non solo la qualità delle lenti ci permise di stare in cima al ponte della barca per tutto il giorno, ma la montatura resistente si rivelò particolarmente efficace quando ci lanciavamo gli occhiali da una parte all’altra dell’imbarcazione, senza mai riportare un graffio. Super conveniente per questi tipi di viaggi.

Marco non solo capitanava e gestiva la WaveHunter, ma ha anche recentemente aperto un altro surf business: Macaronis Villas, un piccolo agglomerato di bungalow nella baia di fronte alla mitica onda Macaronis (o Macas), e uno dei pochi competitori diretti del più famoso e costoso Macaronis Surf Resort.
Grazie a ciò, sulla via del ritorno verso Padang, ci permise di fermarci a Macaronis per surfare un’ultima volta la sinistra più divertente al mondo, non importa la misura. Dopodiché ci salutò calorosamente e scese a terra per rimanere a gestire i suoi bungalow con la compagna Samia, altra “barrel charger” come Marco.

La WaveHunter e il suo equipaggio ci avrebbero portati a Padang durante la notte, non senza prima fermarci per un ultimo surf stop a HT, giusto in tempo per il tramonto.
Questa volta solamente Alejandro, Fernando e Seppi si buttarono in acqua per prendere un paio d’onde prima del buio. Io e gli altri rimanemmo a bordo, godendoci il tramonto, curando i tagli da reef dei giorni passati, e iniziando a smontare e impacchettare le tavole con nostalgia.

Passammo l’ultima notte a bordo chiacchierando del più e del meno e di dove eravamo tutti diretti dopo questo viaggio. Gabriel sarebbe andato a Lombok per surfare un’ultima volta Desert Point prima di tornare dalla compagna e il figlio in Australia. Romain avrebbe preso il giorno dopo un volo di ritorno per la Svizzera.
Io e i miei amici invece saremmo tornati a Bali per passare il resto della stagione secca a Uluwatu e, con un po’ di fortuna, organizzare un’altra strike mission. E nel mentre, sì, anche recuperare le ore di lavoro perdute quando lo Starlink falliva in mezzo all’oceano.

Il boat trip che avevamo sempre sognato di fare era giunto alla conclusione. In qualche modo eravamo ancora tanto emozionati ed eccitati come il primo giorno che salimmo a bordo della WaveHunter.
Undici giorni in mare ci regalarono un sacco di ricordi che ci porteremo stretti per un lungo periodo, almeno fino al prossimo boat trip, tempo e denaro permettendo.

Alcuni di noi tornarono più che contenti, con pure la foto della vita a incorniciare l’esperienza. Altri un po’ meno soddisfatti, magari perché non riuscimmo a prendere l’onda immaginata nella nostra testa, o perché non potemmo surfare Greenbush o che altro.

Per quanto mi riguarda, personalmente, tornai a Bali con molta più esperienza e soprattutto consapevolezza di cosa vuol dire andare a caccia di onde serie e di come si surfano onde serie. Avevamo vissuto il nostro surf movie, il nostro immaginario, per alcuni surfisti, il sogno o l’obiettivo di una vita.

Il video edit del trip realizzato da Alejandro @marc Piwko

E guardandoci l’un l’altro sorridevamo e sghignazzavamo, sapendo che eravamo tanto fortunati da sapere che l’avremmo fatto di nuovo. Che dovevamo farlo di nuovo.
Perché isolarsi dal mondo, in mezzo all’oceano e alla giungla, con i propri migliori amici, facendo ciò che si ama di più al mondo fino allo sfinimento, è la cosa più figa al mondo. E chiunque surfa là fuori lo sa benissimo.

Se potete, se avete il tempo e il denaro, e anche il coraggio, raggruppate i vostri compagni di viaggio, fatevi quei mille voli e ore di viaggio, e ritrovatevi di fronte a un’onda deserta con la pioggia tropicale a distanza che si avvicina, e la luce del tramonto che fende l’orizzonte.
Non c’è foto o film di surf che possa rendere l’emozione.