Nico era riuscito a mettere su un bel gruppo. Il Verdura, la Stefi, Odo, il Brigante, Attila, lo Svizzero, Teino, il Tesoriere… Dopo il primo giorno ognuno aveva già il suo soprannome. Chi se lo portava dietro dalla nascita, chi lo aveva conquistato sul campo.
Eravamo i primi a sperimentare la versione bikepacking da otto tappe del Wild Bike West, il tour in Andalusia che Nico Valsesia (sì, quello che “la fatica non esiste”…) ha disegnato e inserito nel suo programma di viaggi in bici in giro per il pianeta.
La scintilla che ha acceso il fuoco
Io non avevo mai pedalato più di tre giorni di fila, né mai caricato una borsa sulla bici, però seguo un sacco di persone che lo fanno – su Instagram – ammirandoli e anche invidiandoli. Una di quelle invidie finte, per essere sincero, nel senso che ogni qualvolta mi si è presentata la possibilità di seguirne le orme, sono sempre riuscito a trovare scuse per rinunciare, continuando così a guardare, fantasticare e svicolare.
Ma un giorno di metà marzo qualcosa è cambiato. La capacità di motivare di Nico e un momento della vita di quelli che ti portano a rivedere la lista delle priorità hanno trasformato il solito passo indietro in un un posto lato finestrino sul volo Malpensa-Malaga. Poco meno di due ore di tratta, in cui voglia di partire, sonno e dubbi si sono accavallati e stemperati fino a quando son sceso dall’aereo.



Aspettando l’autobus che mi avrebbe portato a Granada, da Nico e dalle bici, ho incontrato i primi tre compagni di viaggio. Non è stato difficile individuarli, soprattutto uno, un ragazzone di un metro e novanta, baffoni a manubrio, birkenstock, marcato accento ligure e un enorme scatolone in cartone, sbrindellato dal volo, che lasciava intravvedere una bici con telaio in bamboo. Attila, in forza alla Municipale di Varazze…
Il resto del gruppo era già arrivato. Il tempo dei saluti, di divorare una frittata di patate, di riempire le borse (realizzando che due terzi del bagaglio che avevo con me sarebbe rimasto ad aspettarmi nel garage dell’albergo) ed eravamo in sella.
Chi ben comincia






La nostra versione di Wild Bike West prevedeva otto tappe fra 60 e 100 km, con 11.000 metri di dislivello, e la prima non era fra le più tranquille. “A marzo c’è sempre il sole e fa già caldo!” aveva detto Nico, anche se la Sierra Nevada coperta di neve e il cielo nero non sembravano crederci molto.
Ciononostante, la pioggia che aveva cominciato a cadere nel mezzo della prima salita e che ci aveva accompagnato per tutta la discesa non era bastata a raffreddare gli entusiasmi, semmai era riuscita ad accelerare l’amalgama del gruppo. Così come l’arrivo alla Cueva, con la notte illuminata solo dalle luci delle bici, aveva già scritto una storia da raccontare.
La prima pedalata, la prima cena e la prima notte avevano creato quella intimità e quell’affiatamento che avrebbero trasformato, dalla mattina seguente, ogni giornata in una gita di classe. Una classe eterogenea e ben assortita, con il suo capoclasse, il secchione, il bastian contrario, i casinisti degli ultimi banchi, la preferita del prof, il fenomeno, il taciturno, il ripetente…
E con un professore molto particolare, di quelli che ti convincono con il loro carisma, capaci di risolvere più o meno ogni problema e che riescono a mantenere la loro autorità senza bisogno di tenere le briglie, anzi, consentendo alla classe anche qualche ammutinamento, come la volta che abbiamo scelto di accorciare una tappa o di cercare una via alternativa alla scalata del fondo cieco di un canyon.
Ogni giorno una storia




Ciascuna delle otto tappe, che hanno disegnato un grande anello iniziato e terminato a Granada, ha avuto una sua forte personalità. Se il primo giorno mi era sembrato di attraversare le pinete delle nostre Alpi, il secondo e il terzo ci hanno immersi nella magia delle rughe della terra, posandoci su un nastro contorto di terra fra le pareti di roccia rossa del Deserto del Gorafe. Un luogo fuori dal tempo e dall’immaginazione, tanto quanto la serata in cui sono venuti ad allietarci i musicisti del paesino, che alimentati a birra e liquori ci hanno fatto cantare e ballare fino allo sfinimento.
Poi, la splendida Via Verde che, seguendo il tracciato della vecchia ferrovia, ci ha portati verso il mare, attraverso le miniere abbandonate. Quindi abbiamo di nuovo piegato verso l’interno, con la meraviglia della costa al mattino presto, ma anche lo scempio delle discariche dietro le serre e l’agonia della salita più dura fra tutte, prezzo da pagare per godere della discesa più bella. Infine, l’ultimo arrivo in notturna, dopo una giornata lunga e faticosa, preludio alla tappa conclusiva, che ci ha riportato sui monti del primo giorno, però con il sole e con i panorami che avevamo perso.




Per otto giorni – e otto notti – abbiamo condiviso fatica, risate e luoghi di straordinaria bellezza, che si sono trasformati in ricordi sedimentati in qualche meandro del cervello. E, come succede per ogni gita di classe, quando i vecchi compagni si rivedono, certi ricordi tornano sempre a galla. Per noi saranno il freddo patito scalando l’Alto de Velefique, le infinite discese pedalate a cervello spento, il pranzo seduti sul marciapiedi del minimarket, il bagno in mare non appena lo abbiamo raggiunto, lo spettacolo al saloon di Fort Bravo, i baffi disegnati per inscenare il duello di “Per qualche dollaro in più” nell’aia di Los Albaricoques, la crema per il soprasella condivisa come una grolla di vin brulée… E tutti quelli che ognuno ha fatto suoi.
Si può fare…
Nico lo aveva detto che l’Andalusia sarebbe stata capace di stregarci, e così è stato. Lo ha fatto con i suoi paesaggi, ma anche con le persone vere e genuine che vivono solo in certi luoghi.
Grazie Nico perché, dopo questo viaggio, qualcosa è cambiato. Oltre alle gambe dure, a qualche bella amicizia e agli occhi pieni di bellezza, ho portato a casa anche la consapevolezza di potercela fare e, soprattutto, la voglia di farlo ancora.