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Sonny, il cuore e il fango

di - 30/06/2022

sonny colbrelli in posa con trofeo roubaix e maglie tricolore ed europea

Si perde dopo la linea, non prima” Sono le parole di nonno Cesarino, che hanno ispirato il mai arrendersi del cammino di Sonny verso le vittorie di ieri e di oggi.

Subito dopo la sua vittoria alla Roubaix 2021, con la stessa velocità con cui ha bruciato sul traguardo i due compagni di fuga, Sonny Colbrelli ha scritto un libro. Un libro che racconta belle storie, pagine forti e piene di ispirazione. Ma il capitolo più intimo e profondo, quello che non riguarda il ciclista, bensì l’uomo, Sonny lo sta scrivendo ora
Lo abbiamo intervistato in una situazione surreale. Io, seduto per terra nel bivacco Ferrario (quella specie di LEM, in cima ai 2.177 metri della Grignetta, sopra Lecco), al riparo da un meteo umido e ventoso. Lui, seduto sul divano di casa, che assisteva alla tappa del Giro che avrebbe commentato in serata. Abbiamo chiacchierato mezz’ora, grazie alla tecnologia che non ci mai abbandonato.

Avresti mai pensato di finire dentro un libro?

No, è una cosa che non mi è mai venuta in mente. Non ci ho mai pensato. Poi, dopo la vittoria alla Roubaix, mi hanno contattato e me lo hanno proposto. Sapevo che Pastonesi è bravo e aveva scritto un bel libro con Nibali, così ho accettato.

Ti fa più impressione avere il nome sulla copertina di un libro o sull’albo d’oro di una gara?

Beh, avere un libro dedicato a te è una bella cosa e ti rendo orgoglioso di tutto quello che hai fatto, però avere il nome nelle docce del velodromo di Roubaix è tutta un’altra storia. Per me, e credo per qualsiasi corridore, non c’è confronto.

“Pedaliamo al centro della strada, la strada è fatta a dorso d’asino e ai lati è scavata dalle ruote dei trattori che hanno lasciato scie come binari di un treno, che però non emergono ma sprofondano.”

Qual è il capitolo che ti ha suscitato più emozioni nello scriverlo?

Sicuramente quello in cui descrivo la mia infanzia e la mia famiglia. Mio nonno Cesarino. Mi sono sempre stati vicini e mi hanno dato la forza di continuare, di restare sempre umile e con i piedi per terra. Lavoravo in fabbrica in quel periodo ed era facile pensare di mollare tutto per fare solo il corridore. Sì, la parte che più mi ha emozionati e più intima è questa.

A proposito di piedi per terra, dopo aver vinto la Roubaix è facile continuare a tenerceli?

Basta volerlo. Io penso che anche se ho vinto la Parigi-Roubaix, l’Europeo, l’Italiano e tante altre corse, sono sempre rimasto quello che ero il giorno prima di ogni vittoria. Certo, ci sono corridori che dopo successi importanti alzano un po’ l’asticella, ma per me l’unica cosa che è cambiata è che suona molto di più il telefono (sorride…).

C’è il rischio di sentirsi appagati dopo una vittoria così importante?

Per me no. Ho sentito questa vittoria come una conferma. Una conferma di ciò che tutti si aspettavano da me sin da giovane. Non è arrivata a vent’anni e nemmeno a venticinque, come anch’io speravo, ma quando è arrivata è stata solo motivo di orgoglio personale, perché in tutti questi anni sono sempre migliorato e, tra fortune e sfortune, credo di essermelo meritato e di averlo guadagnato solo con le mie forze. Poi non è proprio nelle mie corde sedermi sugli allori e, se guardiamo al breve inizio di stagione, ho fatto tre gare e due secondi posti, uno dei quali nella Classica di apertura in Belgio. Questo per me è confermare i risultati precedenti e nella mia testa il 2022 doveva essere l’anno della riconferma. La Roubaix mi ha dato la carica e volevo dimostrare che i successi non erano arrivati per caso.

Quali sono gli ingredienti per vincere la Roubaix? Cosa hai avuto lo scorso anno che ti è mancato in passato?

Per vincere la Roubaix bisogna prima di tutto avere una grande gamba, è scontato. Ma non la vinci se non ti capita la giornata perfetta. La giornata della vita, in cui ti va tutto bene: non scivoli, non fori, non hai inconvenienti che ti possano mettere fuori gioco. E poi devi avere una grande testa, bisogna essere determinati e lucidi fino alla linea del traguardo. Anzi, fino a che non la superi, soprattutto quando non arrivi da solo, ma con altri corridori, e te la devi giocare in volata.

E tu, quando hai davvero capito che stavi per vincere?

Solo quando ho passato la linea del traguardo. Fino agli ultimi cinquanta metri non sapevo come sarebbe finita.

“Vedo in me un Sonny mai visto prima, mai così determinato e aggressivo. Solo per un attimo. Poi scaccio il pensiero. I pensieri pesano. I pensieri frenano.”

Come si fa a restare concentrati così a lungo, in una corsa così complicata?

In realtà in tutte le corse bisogna essere concentrati. Certo, alla Roubaix non puoi permetterti nemmeno un momento di distrazione in tutte le sei ore di gara, il che significa avere una gran testa e non perdere mai di vista l’obiettivo. Mai togliere gli occhi dalle ruote degli avversari e anche dalle tue, perché è un attimo sbagliare e buttare via la gara. Quando arrivi in fondo sei stremato forse più di testa che di gambe. Anche questa è una cosa che si allena: si impara a restare concentrati per ore.

Quanto è importante la bicicletta in una gara così particolare?

Molto importante. Passiamo un sacco di tempo a cercare l’assetto migliore, a scegliere le gomme e le pressioni. Molti hanno montato i 30 mm, io invece ho scelto i 32 mm con una pressione di 3,4 davanti e 3,8 dietro, e ho provato e riprovato sui settori di pavé fino a quando ho trovato il giusto feeling. Alcuni utilizzano bici con sistemi di sospensione, io ho preferito la mia solita bici, cambiando solo il manubrio e mettendo un particolare gel nel doppio nastro, che utilizzo sempre, per smorzare un po’ le vibrazioni quando si entra nei tratti di pavé.

Cosa pensi dei talenti della nuova generazione?

Fanno paura… Da Pogacar a Remco, sono davvero forti. E ce ne sono molti altri. Da un lato mi fa piacere, dall’altro può essere che, vincendo così tanto da giovani, poi magari si stufino prima o si sentano già appagati. Comunque fanno bene al ciclismo. Uno come Pogacar che a vent’anni vince il Tour, poi lo rivince a ventuno e quest’anno ha di nuovo cominciato alla grande sembra davvero essere destinato a diventare il nuovo Eddy Merckx.

Fino a qualche stagione fa, l’esperienza aveva ancora tantissima importanza. Ora sembrano invece contare di più altri fattori. Cosa è cambiato?

Sono cambiati molto i metodi di allenamento. Vedo i giovani allenarsi davvero tanto, come noi non avevamo mai fatto. Una volta gli allenatori ci tenevano calmi e ci dicevano che dovevamo esprimerci ed emergere una volta passati professionisti. Oggi invece si spremono molto, vedo anche allievi e juniores allenarsi con i potenziometri e fare ritiri in altura. Io prima di passare pro mi allenavo guardando solo i battiti… Il ciclismo è cambiato tanto non solo per noi, ma anche per i giovani, ed è per questo che qualcuno è già molto forte e fa risultato non appena passa professionista. Non dimentichiamo anche la grande evoluzione nelle biciclette, nell’alimentazione, nella progettazione di ogni cosa. Una volta si andava in galleria del vento con la bici da crono, adesso ci si va anche per l’abbigliamento, si guarda l’altezza delle calze, la lunghezza delle maniche. Ora si può misurare anche la scorrevolezza delle gomme, confrontando tubeless e tubolari. Sembriamo la Formula 1.

Cos’è per te la paura. La conosci?

Sì. Per me la paura è stata la paura di non fare risultati, di non sbocciare. Ci sono stati momenti in cui non arrivavano le soddisfazioni che ho sempre desiderato e in quei momenti ho avuto paura.

“Il nonno Cesarino – top top – me lo porto nel taschino. Nel taschino, quello sulla schiena, quello dove si mette la ricetrasmittente, il modem per la radiolina, per l’interfono, per parlare con il direttore sportivo e i compagni di squadra. È una fotografia del nonno Cesarino. Adesso è tutta spiegazzata, consumata, ma c’è ancora”

Come l’hai superata?

Mi ha aiutato molto la mia mental coach. Lo ha fatto nel mio cammino fino a oggi e lo farà anche nei prossimi anni. Non è facile fare l’atleta: quando ti impegni e dai il massimo ma i risultati non arrivano, la testa può andare nel pallone. Lei è stata importante perché mi ha fatto riscoprire la serenità e la consapevolezza nei miei mezzi, che probabilmente avevo anche prima, ma non sapevo tirarla fuori.

E ora, come sta la tua testa?

Beh, sapete tutti ciò che mi è successo, però sto bene. Non è facile ma sto reagendo bene. Sono contento perché io sono qui a parlare con te mentre ci sono molte persone che non possono raccontare ciò che gli è capitato. Quindi è importante vivere questa situazione con serenità, sorridere e guardare avanti.
È stato bello, prima della Parigi-Roubaix, quando i compagni mi hanno chiamato in collegamento dal bus dove stavano facendo la riunione per chiedermi qualche consiglio. Sai che, da fuori, vedo le corse in un modo diverso. Adesso, per esempio, sto guardando la tappa e mi accorgo di come si muovono le squadre, come lavorano i leader, di eventuali errori anche del tuo team, mentre sulla bici senti solo le cose che ti dicono alla radiolina. Sai, mi è servito molto guardare le Classiche, ora il Giro. Ho imparato cose che non sapevo.

Non starai mica studiando da direttore sportivo

(Ride…) No, no, non ci ho pensato, e poi adesso mi ritengo ancora un corridore. Comunque non credo che mi piacerebbe fare il ds: vorrebbe dire stare ancora lontano dalla famiglia e non godersela fino in fondo come sto facendo adesso. Certo, quando si smette di fare il corridore bisogna comunque fare qualcos’altro, ma non vorrei trascurarla come ho fatto in questi anni da professionista. Io come tutti gli altri corridori, che hanno sempre la valigia pronta per partire.

“Non è facile fare l’atleta: quando ti impegni e dai il massimo ma i risultati non arrivano, la testa può andare nel pallone.”

Ha mai pensato a come sarà Sonny fra vent’anni?

Me lo vedo che sarà sicuramente 120 kg! (Ride…) Già adesso, che sono fermo da un mese e mezzo, sto lievitando, porca eva! In realtà non so. Non ci ho pensato, ma sarà difficile restare fuori dal mondo che mi ha reso il Sonny che sono adesso. Difficile lasciare il ciclismo. Subito dopo che mi è capitata questa brutta avventura, ho pensato: “Basta! Chiudo con la bici, non guardo più una corsa”. Ma non è stato così, non ci riesco. Le Classiche le ho guardate tutte. Del Giro seguo ogni tappa, dall’inizio alla fine. Non posso nascondere che il ciclismo è importante per me. Lo è stato in passato e lo sarà in futuro. Non so ancora come e in che veste lo vivrò, però dopo tutte le soddisfazioni che mi ha dato non posso lasciarlo alle spalle.

Come è il tuo rapporto con la gente?

Mi sono sempre trovato bene con le persone, tifosi e anche no. Cerco sempre di accontentare tutti. Che sia una foto, un autografo, scambiare due parole. Cerco di avere sempre tempo per tutti. Da quando ho vinto la Roubaix, sono diventato più popolare e mi riconoscono e mi fermano in tanti. Anche sotto questo aspetto, in effetti, mi è cambiata la vita. Questa mattina mi sono fermato al bar a prendere un caffé. Indossavo non la divisa del team, ma un completo speciale che mi ha fatto Alé, dedicato alla Roubaix. In molti mi hanno riconosciuto e in pochi minuti avrò fatto una dozzina di foto. Tutti mi chiedevano: “Sonny, cosa farai, tornerai a correre?”, e mi ha fatto davvero piacere sentire questo calore, perché è la prova che sono sempre stato corretto e mi sono comportato bene. Ancora oggi ricevo tanti messaggi dei miei colleghi, anche stranieri, che vogliono sapere come sto, e per me questo è molto importante.

È la bici lo sport più bello del mondo?

Per me sì, ovvio, anche se ogni sport è sempre il più bello per chi lo pratica. Però il ciclismo ha una cosa che gli altri sport non hanno. Una persona, se si mette d’impegno, con la sua bicicletta può anche girare il mondo. Non importa che tipo di bici sia, gravel, mountain bike o da strada. Pian piano puoi arrivare dappertutto. Basta volerlo, come ho fatto io. 

Foto: @Sprintcycling e Bettiniphoto

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Mi piacciono le biciclette, tutte, e mi piace pedalare. Mi piace ascoltare le belle storie di uomini e di bici, e ogni tanto raccontarne qualcuna. L'amore è nato sulla sabbia, con le biglie di Bitossi e De Vlaeminck ed è maturato sui sentieri del Mottarone in sella a una Specialized Rockhopper, rossa e rigida. Avevo appena cominciato a scrivere di neve quando rimasi folgorato da quelle bici reazionarie con le ruote tassellate, i manubri larghi e i nomi americani. Da quel momento in poi fu solo Mountain Bike, e divenne anche il mio lavoro. Un lavoro bellissimo, che culminò con la direzione di Tutto MTB. A quei tempi era la Bibbia. Dopo un po' di anni la vita e la penna parlarono di altro, ma il cuore rimase sempre sui pedali. Le mountain bike diventarono front, full, in alluminio, in carbonio, le ruote si ingrandirono e le escursioni aumentarono, e io maturavo come loro. Cominciai a frequentare anche l'asfalto, scettico ma curioso. Iscrivendomi alle gare per pedalare senza le auto a fare paura. Poi, finalmente arrivò il Gravel, un meraviglioso dejavu, un tuffo nelle vecchie emozioni. La vita e la penna nel frattempo erano tornate a parlare di pedali: il cerchio si era meravigliosamente chiuso.